Il linguaggio più universale che c’è

È finita la Coppa d’Asia 2015 e l’ha vinta l’Australia. Un successo pronosticato ma non prevedibile, in una finale vissuta con la classica sensazione che giocare in casa ti aiuta, sì, ma ti mette addosso tanta pressione.

La massima manifestazione continentale per le nazionali asiatiche si è chiusa con una finalissima giocata sul filo della tensione, come da tradizione in questi tornei. Contava tantissimo e lo si percepiva da casa come all’ANZ Stadium (scusate…Stadium Australia), in tv come nei social.

Corea e Australia si erano già incontrate nell’ultima gara del girone, con in palio il primo posto ma a qualificazione già in ghiaccio. Se è vero che giocarono il match di Brisbane con in tasca già il pass per i quarti, allora lo spauracchio – favorito secondo tutti i pronostici – si chiamava Giappone e chiudere in testa lo avrebbe allontanato sino alla finale. In quel caso, alla Corea del Sud bastò il gol di Lee Jung-hyup al 33′, che con le formazioni rimaneggiate e un turnover antipatico ma comprensibile lasciava allo spettatore la sensazione di uno scontro a metà, qualcosa di irrisolto. Un appuntamento alla finale, o quasi.

Da lì in poi il cammino di Socceroos e Taegeuk Warriors era passato per Uzbekistan, Cina, Emirati Arabi e Iraq. Senza mai subire gol, sempre per 2-0: a volte in modo autoritario, altre con sofferenza (doppietta di Son Heung-min ai supplementari di Melbourne), ma comunque con in testa l’obiettivo di Sydney e magari il bagno di folla degli 80 mila. Anche perché il  torneo – lungi dall’essere scontato come nella fase a gironi – ci è andato poi a mettere del suo, con l’eliminazione del Giappone e dell’Iran ai quarti (maledetti rigori!), grazie all’eroismo di Iraq ed Emirati Arabi Uniti, storie tra le più interessanti dell’anno solare 2015.

A questo punto l’Australia con la Corea del Sud aveva un conto in sospeso, perché l’1-0 di Brisbane l’aveva privata dell’atmosfera di Sydney ai quarti, mandandola (ancora) nel Queensland e a Newcastle; ma forse proprio al Newcastle Stadium, impiantino piccolo ma molto caldo, con un effetto catino travolgente, è girato tutto: passione e trasporto perfettamente incanalati in finalissima, dove una marea gialla si è opposta a una marea rossa (va fatto un grande plauso ai tifosi coreani accorsi in massa), nella festa della sport.

Non una finale bellissima, come detto, ma due ore dal sapore romanzesco, drammatiche come solo il calcio sa essere: Corea del Sud più spigliata e libera nel primo tempo, la prodezza di Luongo prima dell’intervallo e poi l’attesa.

Un’attesa lunga, quasi buzzatiana: il tempo si dilata, si fa infinito e non passa mai. Il cronometro amico-nemico, la storia che non si compie.

Sino al 92′, quando sembrava fatta e Son Heung-min, da vero attaccante di razza, sfruttava l’ultimo spiraglio possibile a freddare Ryan: 1-1, palla al centro e inerzia coreana.

Sino al 105′, sino al momento in cui Troisi, che il suo football di club lo gioca nella Jupiler Pro League di cui ci fregiamo con orgoglio di parlare, ha raggiunto Mal Meninga, David Campese e altri eroi nell’olimpo dello sport australiano, consegnando a Mile Jedinak una coppa vale tutto il percorso iniziato un’era fa.

Iniziato quando il calcio – lo sport degli immigrati, il luogo della conservazione delle identità nazionali dentro il melting pot australiano – è diventato di tutti, è diventato universale: i cognomi europei di Luongo e Troisi onorano e raccontano queste dinamiche, incarnano l’unione tra vecchie e nuove patrie.

Dicendoci che il calcio è il linguaggio più mondiale che c’è.

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Matteo Portoghese