Ne ha accennato già ieri il nostro Francesco Mariani: le squadre di Milano, in questa fase storica del campionato, non sono all’altezza delle migliori (anzi, della migliore); e questo in un campionato che, eccezion fatta per la Juventus e forse la Roma, è sempre più livellato verso il basso.
Altro che diventare i migliori in Italia: i numeri parlano di 2 vittorie negli ultimi 12 incontri di campionato, al ritmo di un punto a partita (una media da retrocessione). Numeri, fatti concreti; di quella concretezza che ai rossoneri manca, dopo avere concluso bene il 2014 con la vittoria sul Napoli e il pareggio a Roma: due dirette concorrenti per i posti che contano.
Sembrava l’annuncio di un ciclo sulla via giusta per sbocciare, si è presto rivelato un fuoco di paglia. Cosa manca? Mancano personalità (in troppi elementi) e concretezza (Ménez, quanti altri colpi di tacco vuoi sbagliare?). Si ha un bel dire, come ha fatto il presidente onorario Berlusconi, che «non sono più i tempi in cui si vinceva a Barcellona, ma è inaccettabile perdere contro squadre con calciatori che guadagnano 5 volte meno dei nostri»: di qualcuno sarà pur colpa.
La prima colpa è del calcio di oggi, del Milan di oggi: investimenti ultra-ridotti rispetto al passato (e, peraltro, con il fair play finanziario, spendere e spandere è tutt’altro che semplice), e difficoltà ad adattarsi al nuovo clima. In altre parole: Galliani si è rivelato taumaturgico nel generare cicli vincenti quando messo in condizione di spendere (in principio furono gli olandesi, poi Capello, poi Ancelotti), adesso è costretto non solo a non prendere più campioni, ma a limitarsi a parametri zero, prestiti e scarti altrui. Il salto va dalla gioielleria direttamente al riciclo, scartando la bigiotteria.
La seconda colpa da imputare è proprio sullo sfogo: generico, senza colpevoli esatti. Eppure un responsabile dev’esserci: chi sceglie a chi affidare la squadra, chi fa il mercato, chi gestisce i giocatori, chi li prepara. Magari, chi è pronto a prendere Cerci e Suso, ma non una mezzala né un regista.
La prima cosa da fare è ricalibrare gli obiettivi sulla base della rosa, altrimenti niente ha più senso: va bene darsi un obiettivo, ma poi bisogna anche avere i mezzi per perseguirlo. L’obiettivo attuale non è il terzo posto: è il terzo posto rivalutando giocatori finiti ai margini altrove, magari sfruttando qualche semi-giovane in rampa di lancio (tipo Bonaventura). In parte il compito pare anche riuscire (penso a Rami, che personalmente avevo sottovalutato); peccato che i giovani come Cristante facciano le valigie troppo presto.
Il guaio, però, è che mancano la stoffa e il piglio: non è un caso se il Milan riesce a sostenere ad armi pari confronti contro squadre abituate a giocare (Roma e Napoli, appunto), finendo poi per soffrire contro squadre medio-piccole (come nomi e come onorari): squadre organizzate e compatte, che impediscono ai rossoneri di stendere un contropiede di classe superiore. Difficile trovare l’equilibrio giusto: troppo piccoli per essere una grande, troppo grandi per essere una piccola. La dimensione di mezzo: difficile da accettare.
Però si può prendere esempio proprio da chi, medio-piccolo, infligge batoste al quasi-grande: a livelli di qualità diversi, Sampdoria, Sassuolo e Atalanta mettono in mostra un gioco concreto e, soprattutto, quadrato. In altre parole: prima di pensare a impostare un calcio-champagne, bisogna essere capaci di impostare il gioco. Da Pirlo in poi, il Milan imposta senza regista. L’Atalanta ha Cigarini (ieri anche un palo) e Baselli, i rossoneri… de Jong. Per proporre calcio-spettacolo occorrono interpreti e idee. Inzaghi le ha, ma non può darsi i mezzi da solo.