Home » Milan, uno spettacolo straziante

Chiariamo subito un concetto: non è una questione di risultati o di classifica. No.
Il problema è lo smarrimento, l’imbarazzo, lo strazio che si prova nel guardare giocare il Milan di Inzaghi.

Non sono i punti persi contro il Cesena, l’Empoli, il Cagliari, il Palermo, il Sassuolo o il Torino. È la costante mancanza di un’idea di gioco, di una filosofia propositiva che leghi i giocatori in campo tra di loro con un nastro invisibile con l’obiettivo comune di giocare al gioco del calcio.
Il Milan di Inzaghi visto in questo girone d’andata ha un solo credo: il risultato a ogni costo. Non importa come, non importa perché: l’importante è mettere fieno (punti) in cascina (classifica). La cosa assurda è che non gli riesce nemmeno quello.

Una squadra fondata sul contropiede e sull’errore dell’avversario, sull’intasamento degli spazi in fase di non possesso e sulla buona vena dei suoi solisti. Un Milan così lontano dal filo conduttore degli ultimi trenta anni da non sembrare vero.
E non si dica che è colpa della rosa, dei giocatori, della loro scarsa applicazione. L’unico colpevole risponde al nome di Filippo Inzaghi.

Il Milan è a sua immagine e somiglianza: cinico, attento, letale quando capita l’occasione di pungere. Ma anche povero tecnicamente e tatticamente, privo di quella filosofia romantica che consiste nel giocare bene a pallone comandando la partita con il possesso organizzato e armonioso. I rossoneri, ovunque giochino (che sia a San Siro o fuori casa), sembrano una provinciale in trasferta a Milano. Chiusi, arroccati al limite della propria area di rigore, intenti solo a spazzare gli ultimi undici metri come nei campi delle peggiori terze categorie d’Italia. Eppure si chiamano Milan e il gioco dovrebbero comandarlo, organizzarlo, viverlo.

In tempi di restrizioni economiche sarebbe vitale avere un progetto serio, una filosofia di gioco da cui partire e da mettere davanti a ogni cosa. Una mentalità, una predisposizione a giocare in maniera propositiva che coinvolga tutto il gruppo, a partire dallo staff fino ad arrivare ai giocatori, i quali dovrebbero sentirsi piccoli ingranaggi di un meccanismo più grande di loro e non pedine indispensabili per la vittoria della squadra. Un gioco che sia causa e anche effetto, intorno al quale gira tutto il sistema. Un gioco sul quale costruire il futuro, plasmando i giocatori in modo da avere una formazione con un’identità riconoscibile a prescindere da chi vada in campo.

E invece siamo costretti a guardare uno spettacolo terrificante, con undici (o quattordici) giocatori slegati tra loro, intenti solo a raggiungere il loro obiettivo personale e senza avere una minima idea di cosa sia un gioco collettivo. Con un allenatore che in sei mesi non è ancora riuscito a trasmettergli dei valori positivi.

L’agghiacciante uno a uno di ieri sera contro il Torino è probabilmente il punto più basso mai toccato dal Milan di Berlusconi. Mai, nemmeno con i ritorni di Sacchi e Capello, nemmeno con Zaccheroni e Terim o con l’ultimo Allegri e con Seedorf si era mai arrivati a una nullità del genere. Un gol su rigore al quarto minuto di gioco e poi tutti dietro a difendere il risultato, con le ali offensive a seguire i terzini avversari e le mezzali a seguire a uomo gli intermedi di Ventura. L’espulsione di De Sciglio ha amplificato la pochezza vista fino a quel momento, la sostituzione di Ménez con Alex ha dato il colpo di grazia anche ai suoi ultimi estimatori: Filippo Inzaghi non è un allenatore di calcio.

Sarà sicuramente un discreto motivatore — ma sorgono dei dubbi anche su questo aspetto, adesso — o una figura carismatica all’interno dello spogliatoio, ma la tattica e la lettura della partita non fanno per lui. La continua ricerca di scuse o la non ammissione di aver effettivamente giocato male (vedi dopo la sconfitta del 6 gennaio contro il Sassuolo) denotano anche una scarsa umiltà e una povera predisposizione al voler imparare qualcosa dagli altri.
È vero che passare dalla Primavera alla prima squadra non è facile e che un po’ di gavetta servirebbe; ma qui il problema è che, forse, non c’è proprio il talento necessario per diventare un grande tecnico.