Ciao 2014, ciao vittoria Mondiale, ciao pallone d’oro. E ciao ingresso nell’Olimpo del calcio di fianco a “el Diez”, Diego.
Nel pallone calciato a lato alla sinistra di Neuer a inizio secondo tempo della finale del Mondiale, Messi ha messo un bigliettino con i saluti a tutto ciò che poteva essere e che non sarà mai più.
Quella palla finita a lambire il palo è stata la rappresentazione calcistica di un disegno geometrico in cui la linea della sua vita e quella della vita di Maradona si avvicinano così tanto da dare l’impressione di potersi toccare e poi, quasi al punto di contatto, deviano prendendo direzioni diverse. Un punto di non ritorno. Un vorrei ma non posso. Un tentativo di aggancio al divino, finito male.
Il 2014 di Messi ha rappresentato in soli 12 mesi tutta la sua carriera: giocatore incredibile, talento che passa ogni cinquant’anni, tecnicamente e individualmente il miglior esponente del globo, ma con un blocco mentale che non solo lo mette alle spalle di Maradona, ma — per prendere un suo antagonista contemporaneo — anche di Cristiano Ronaldo, simbolo della forza di volontà e del talento unito al lavoro.
Se, tra qualche anno, proverete a chiedere a un qualsiasi amante del calcio un parere sul 2014 di Messi, come risposta riceverete una cosa del tipo “il peggior anno della sua carriera”. Un anno fatto da quasi 50 gol. Cinquanta. Non due. Nemmeno dieci. Cinquanta.
Eppure la “Pulce” ci ha abituato talmente bene che una stagione vissuta senza alzare alcun trofeo, ma con una finale del Mondiale, un secondo posto nella Liga, un quarto di finale di Champions e una delle prime tre posizioni — insieme al solito Ronaldo e a Neuer, che sta ridisegnando le regole del ruolo del portiere — del Pallone d’Oro (condita sempre dai quasi cinquanta gol) viene vista nell’immaginario collettivo come la “sua peggiore stagione”.
La verità è che lo è stata davvero, la peggiore stagione della carriera di Messi. Ma non per il non aver vinto con il Barcellona o per aver visto Ronaldo giocare di nuovo meglio di lui. No.
Lo è stata per aver perso l’occasione di una vita quella notte del Maracanã contro la Germania, con quel tiro finito a lato, quei sogni andati in fumo, quella scalata all’olimpo conclusa con una caduta tra noi comuni mortali.
In verità, il Mondiale di Messi è stato un torneo da protagonista. Gol alla Bosnia, gol all’Iran, gol alla Nigeria. Tutti a parlare di Neymar, di James, del fallimento di Ronaldo e della Spagna, ma nessuno — o pochi — a sottolineare il modo in cui Messi, seppur coadiuvato da Mascherano e Di María, stesse trainando una squadra non eccelsa (super attacco, ma reparto difensivo rivedibile) nella cavalcata verso la finale.
I primi sintomi di ciò che sarebbe poi successo nella notte contro la Germania si sono visti con le partite a eliminazione diretta, dove la tensione e la paura di buttare tutto all’aria l’hanno fatta da padrone.
L’immagine che ci ha accompagnato per le ultime due settimane della rassegna mondiale è stata quella di un Messi piegato sul tronco, con le mani appoggiate alle ginocchia, intento a espellere oralmente tutta la tensione emotiva accumulata nelle settimane precedenti. O, chissà, in una carriera intera aspettando quel momento.
Ciò che è successo nella finale al Maracanã non è stato altro che l’esatta conseguenza di quel malessere e il definitivo distacco da quell’idea di poter raggiungere — e magari superare — Diego: proprio dove Maradona trovava maggiore forza e ispirazione riuscendo a caricarsi sulle spalle non solo una squadra, ma una nazione intera, Messi ha fallito, ha perso e si è chiuso in se stesso. Nel momento di prendere in mano la situazione, nell’attimo decisivo per decidere se essere un dio o un mortale, il meccanismo della sua mente si è bloccato e con lui tutto il resto del fisico, scivolando verso il baratro e portandosi dietro tutte le velleità di vittoria.
Nel giorno successivo alla vittoria tedesca, ci siamo già chiesti — e indirettamente abbiamo chiesto a lui — come ci si potesse sentire nel capire di non essere nati per diventare ciò che si è sempre sperato di poter essere, di non essere nati per diventare l’unico “diez” argentino a vincere un mondiale al Maracanã, nella casa degli acerrimi nemici brasiliani, di non essere l’unico erede degno di Maradona e di non riuscire ad andare oltre.
Non avremo mai una risposta, probabilmente. Ma, in cuor suo, Messi la sa.
Superuomo tra gli uomini, primo tra i primi, migliore tra i comuni mortali.
Per gli dei del calcio, però, citofonare da un’altra parte: non qui, non lui, non nel 2014.