È stato l’anno dei mondiali ma, in qualche modo, avrebbe potuto precederne un altro. Il 2014 si è chiuso tristemente per gli appassionati italiani del calcio femminile, privati del sogno di Canada 2015 e dell’idea di ritornare a calcare il palcoscenico iridato.
Le partite del gruppo 2 dei gironi europei di qualificazione non hanno regalato all’Italia il biglietto per il Nord America, pure con vittorie dal punteggio roboante sparse qua e là. In qualche modo, parlo di una campagna che ben descrive lo stato del movimento: nettamente superiore rispetto alle potenze minori (6-1 alla Repubblica Ceca, addirittura 0-11 in Macedonia, 0-4 a Praga), ma in ritardo rispetto a chi cresce. A chi un tempo inseguiva ma ha cambiato filosofia, ha fatto i compiti, è diventato grande. Rispetto a una Spagna certo lontana dall’età d’oro del calcio maschile ma in evoluzione, grazie al lavoro dei tecnici e gli investimenti dei club.
Lo 0-0 di Vicenza il 5 aprile raccontava di un gruppo in difficoltà di fronte alla manovra fluida della Roja; un gruppo sfortunato a tratti ma poco concreto dove e quanto conta, nonostante il sostegno del Menti. Da lì in poi, il resto delle qualificazioni e il sapore della formalità, nell’attesa dei playoff. Giocati con difesa e contropiede a L’Aia, sospesi tra speranza e impotenza a Verona. Nello spareggio contro l’Olanda, l’Italia ha offerto il meglio e il peggio di sé stessa, ha illuso per poi sciogliersi, ha visto il Canada allontanarsi definitivamente.
Le bestie nere del nostro 2014 ci hanno sorpassato, questo è sicuro. Restano lontane dal professionismo più spinto dei top club francesi, dalla disarmante potenza tedesca e scandinava e dai progressi dell’Inghilterra, eppure sono figlie di un’idea e di una progettualità. Come nel caso delle olandesi, che nel 2012 unirono le forze con la federazione belga allo scopo di creare una lega d’élite, anche per migliorare il livello medio delle partite. O come le spagnole, grazie alla lungimiranza di società di prestigio e in particolare del Barcellona. Movimenti che, in qualche modo, si sono mossi; sbagliando qua e là, costruendo e distruggendo, ripartendo dai propri errori con decisione e volontà.
Invece noi, prigionieri della nostra fragilità – incastrati nel dilettantismo (e nella mancanza di fondi) – siamo rimasti al palo, privi di idee. Non abbiamo offerto – come fece la Football Association inglese – un contratto da professionista alle calciatrici più forti e promettenti del paese, perché si concentrassero solo sul pallone. Non abbiamo dimostrato alle squadre della Serie A più famosa che donna è bello e che il futuro passa per di qua.
A ben pensarci, sarebbe stata un’occasione unica, per la location e tutto il contesto. In un paese che il calcio delle donne lo cura, lo segue, lo apprezza. Stadi importanti, organizzazione perfetta, sotto l’egida di una FIFA sempre più attenta al movimento.
Dall’altra parte del mondo, vicino al paradiso, con tutte le grandi del caso, le azzurre avrebbero guadagnato visibilità, per poi conquistare a piccoli passi il cuore degli italiani.
Sarebbe stato un momento di magia ma non ci siamo arrivati: non ce lo siamo guadagnati, non ce lo meritiamo. A Cabrini e alle ragazze azzurre il compito di rifletterci su. E stupirci, la prossima volta; noi ci saremo comunque, tranquilli: non vogliamo essere i soliti italiani che si curano di un torneo solo se c’è la Nazionale.