In certi momenti la storia ti passa davanti in modo quasi inconsapevole. È quello che mi è successo il 24 maggio scorso: assistere a un evento storico, ma farlo con un occhio diverso, disincantato senza per questo essere disilluso. Chiamiamola pure la forza della cronaca.
La cronaca dell’ultima finale di Champions era stata affidata al nostro Paolo Maragoni, ma quella sera anche io ero di picchetto: pronto ad aiutare in caso di problemi, o a subentrare in caso di catastrofi (è la legge della Rete: se salta la connessione a Internet, salta anche la pubblicazione). Se tutto fosse filato liscio, mi sarei goduto la partita; altrimenti sarei corso al lavoro pieno.
E tutto è andato liscio (e quindi grazie a Paolo, e al destino fortunato), almeno dal lato della redazione. A livello più prettamente personale, confesso di no: sostegno da sempre il Real Madrid (malgrado una certa simpatia per il Cholo, sulla panca avversa), ed è chiaro che la maggior parte della partita, appunto, mi ha visto sulle spine. Era il 36esimo quando Godín ha staccato di testa e Casillas è andato a farfalle.
Poi è stato un inseguimento continuo: l’ingresso in campo di Marcelo e di Isco, e l’assedio (e anche la carta-Morata in vece di uno spento Benzema), eppure il copione sembrava già scritto, deciso, immutabile: Atlético campione, Real Madrid ancora una volta rimandato (con l’aggiunta dell’umiliazione di Casillas: con Buffon e Čech, uno dei migliori della scorsa generazione – eppure fautore di prestazioni non all’altezza negli ultimi mesi).
Poi, appunto, il momento in cui la storia ti passa davanti: calcio d’angolo battuto da Modrić, testona di Sergio Ramos, e giochi riaperti in extremis. Senza rendersi del tutto conto che quel pareggio già chiudeva i giochi: troppo forte il colpo per i Colchoneros, adesso i favori del pronostico erano completamente cambiati di segno. Un attimo. Un colpo. Di testa. E tutto gira.
Guai a parlare di fortuna: ci provavano da quasi un’ora, i Galácticos, e fin lì avevano sbattuto contro un muro; poi, finalmente, il varco giusto, quello che apre la strada ai risultati. E il plurale è tutt’altro che casuale: perché se a maggio hanno poi segnato anche Bale, Marcelo e Cristiano Ronaldo (mettendo il sigillo alla Décima), i successi poi non si sono fermati, se il Real Madrid attualmente è in striscia aperta di 22 vittorie consecutive, ha portato a casa il Mondiale per club, issandosi nuovamente, assieme a Boca Juniors e Milan, tra le squadre più titolate del calcio che conta.
E dire che Ancelotti, che aveva il comando della Liga a tre quarti di campionato, era stato persino messo in discussione dopo la doppietta di sconfitte (in casa con il Barcellona, e poi a Siviglia) che lo avevano tagliato fuori dalla lotta al titolo nazionale. E poi, appunto, un attimo e tutto gira: la Champions torna possibile, e una squadra straordinaria diventa una macchina da guerra. Può ben essere soddisfatto del 2014, Ancelotti: si è preso il primato mondiale con la squadra, e presumibilmente lotta per essere considerato il numero uno delle panchine.
Tutto questo nell’anno in cui la vecchia bandiera del Madrid (come lo chiamano in Spagna) si ammainava, in estate, a Mondiali in corso: Di Stéfano, vincitore della prima metà dei dieci titoli continentali per i Blancos. Che un tempo erano appoggiati dal governo spagnolo, e oggi invece sono appoggiati dal denaro di sponsor munifici: è un’èra diversa, quella dei Galácticos.
Non possiamo conoscere con certezza il pensiero di Di Stéfano oggi (Santo Stefano), da lassù; ma di sicuro sapeva che il presente delle Merengues era in ottime mani. Chiamato a confermarsi nel 2015, perché quel colpo di testa non sia solo il coraggio sfrontato di chi ha quasi perso, ma l’apertura di un nuovo ciclo.