Ieri si è giocato (gli anticipi di Juventus e Napoli), domani si giocherà. Ma oggi pausa: c’è spazio per parlare di altro e per trarre almeno una lezione, nell’attesa dell’ultimo turno pre-festività e della Supercoppa di lunedì, a Doha.
Quindi, sotto con la storia: Martín Castrogiovanni, pilone della nazionale italiana (con Troncon, Lo Cicero e Parisse, l’unico ad avere raggiunto quota 100 presenze) e del Tolone (bicampione d’Europa in carica) l’ha sparata grossa, attaccando duramente il Leicester, squadra in cui ha militato tra 2006 e 2013 e nella quale ha lasciato un ricordo ottimo tanto con i compagni che tra i tifosi.
Parole pesanti come pietre, al termine di una sconfitta, dirette in modo plateale al tecnico inglese Richard Cockerill: «dice che me ne sono andato per soldi, la verità è che ho pagato 100mila sterline di tasca mia per andarmene», «ha messo in giro queste bugie per farmi passare da mercenario», «non dice che nel mio ruolo doveva far giocare Dan Cole, il cui stipendio per metà è pagato dalla federazione inglese», «negli ultimi anni questo club, o (meglio) chi lo dirige, sta mancando di rispetto alle persone». Chi vuole intendere, intenda.
Il problema è che… parliamo del mondo del rugby. Quel mondo strano e affascinante in cui per andare avanti bisogna passare indietro; quello spettacolo di corsa, atletismo e disciplina; quello sport di squadra in cui un singolo (un Jonah Lomu) può svettare soltanto inserito in un gruppo; quell’insieme di pratiche di correttezza, impeto cavalleresco, rispetto, terzo tempo. Insomma, un mondo a sé: non dico migliore o peggiore, semplicemente autonomamente codificato e diverso.
E quindi le conseguenze: immediate scuse di Castrogiovanni (per il metodo, non per il merito), ma deferimento in arrivo; e due giorni fa si sono chiusi i giochi. Dieci giorni, poche discussioni, un esito chiaro e incontrovertibile. Fatto particolare: di fronte alla disciplinare, il pilone azzurro si è dichiarato colpevole. Ha ammesso il proprio errore: avere arrecato un danno all’immagine del rugby. Dice niente?
Ha ritrattato le proprie parole, è venuto meno ai propri pensieri – o non ha forse riconosciuto che un secondo errore non è la riparazione del primo? Ha fatto bene, ha fatto male? Nel dubbio, sempre buona la prima: alzi la mano chi non ha sbagliato mai, chi può avere tanta mancanza di modestia da credersi infallibile, perfetto. La palla ovale, rispetto a quella tonda, mantiene un rispetto fondamentale: la forma è anche sostanza.
Un’altra riflessione: non si tratta di buonismo né di perbenismo. Viviamo in un mondo ormai congelato dal politicamente corretto: certi confronti/scontri, nei decenni passati, erano la norma – mentre oggi sono visti come sacrilegi. Non è apologia della scorrettezza, quanto un banale pragmatismo: a volte gli animi devono anche sfogare, ecco. Si può essere aggressivi senza essere scorretti (per chi seguisse i motori, fin qui è stato il caso di un Ricciardo).
Ed ecco, appunto, la lezione: mantenere separati i due piani; dare a ciascuno secondo merito, senza calcoli – e con rispetto. Quello che Castrogiovanni ha ammesso essergli mancato: alla veneranda età di trentatré anni. La forza dell’autocritica: aspettando la prossima volta che la vedremo sui campi della Serie A di calcio, per esempio. O cominciando a pensare a noi stessi: quante volte ci autoassolviamo sulla base di ciò che ci dice la pancia, senza altri riguardi?
Natale si avvicina: saremo tutti più buoni, ma non buonisti. Dabbene, ma senza dabbenaggine. Vivendo senza debiti né crediti (materiali, o di riconoscenza). Seguendo ciò che ci viene da dentro, capendo però che, spesso e volentieri, a sbagliare non è uno solo. E ammettere gli errori, e abbassare i toni è proprio il modo più efficace per parlare del merito delle cose. Le urla lasciamole alle tribune politiche.