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Una sconfitta interna contro il Chievo fa sempre male, soprattutto se segue una disfatta domestica contro la Fiorentina e ancor di più quando da quattro mesi attendi il brivido della vittoria interna. Il Cagliari di Zeman sembra arrivato ad un bivio natalizio. Bella la vittoria esterna in quel di San Siro, bene anche il pareggio rimediato al San Paolo, ma i soli tre punti raccolti davanti al proprio pubblico sono davvero poca cosa.

Mister 4-3-3 si è stilizzato in se stesso, totemico e nodoso, solcato da una rete viaria di rughe, occhi incavati in uno spillo di luce. Nei filmati di repertorio mandati in onda in queste settimane, il confronto con il nervoso ma scattante allenatore dei tempi del Foggia o della Lazio restituisce un divario d’immagine ancor più sofferto di quanto il tempo avrebbe dovuto scavare per il suo scorrere naturale. E forse, il travaso di energia e fiducia che normalmente anima l’osmosi tra il tecnico boemo e i suoi giocatori-discepoli sta perdendo di intensità. Nel Cagliari di Zeman si vede chiaramente l’imprinting di gioco – nel bene e nel male delle tradizionali alternanze zemaniane tra fasi difensive e offensive parimenti pericolose – ma quel che sta mancando è la crescita dei singoli elementi.

Vuoi per ragione anagrafiche, vuoi per contingenze fisiche, ancora non si è creata l’alchimia prolifica dei tridenti zemaniani. Senza necessariamente riandare a Rambaudi – Baiano – Signori, anche l’esperienza pescarese aveva originato un raccolto fruttoso, con Insigne – Immobile – Sansovini. Attualmente, il solo Ibarbo, galoppatore incline all’individualismo anarchico, non basta.
In un’altra occasione, storica per il calcio italiano, Zeman aveva dimostrato di saper plasmare anche da una materia prima ben grezza. Accadde nel secondo Foggia, quando venduti a peso d’oro i gioielli della corona boema e pescando nelle serie minori non qualche elemento ma l’intera rosa della squadra, Zeman dimostrò di poter dare comunque spettacolo, salvandosi. C’erano sì talenti, come Di Biagio e Kolyvanov, ma anche Di Vincenzo e Di Bari, Bianchini e Mandelli: volenterosi adepti che riuscirono a reggere il salto di categoria, dimostrandosi pro tempore all’altezza. E forse anche questa materia prima operaia, nell’esperienza isolana non si sta sgrezzando abbastanza in fretta.

C’è poi la questione portiere. Il giovane Cragno sta cercando di affrontare nel migliore dei modi la responsabilità del ruolo, che in questa fattispecie tattica presuppone la resistenza a frequenti rovesci tropicali ma oltre certe temperature di classifica, potrebbe servire un’esperienza maggiore. L’ultima esperienza romana di Zeman fu profondamente segnata da un errore di valutazione del tecnico boemo, che si ostinò oltre il dovuto a proporre l’uruguaiano Mauro Goicoechea, oggi sparito dagli orizzonti calcistici più evidenti.

Una crescita lineare non è prerogativa propriamente zemaniana, ma questa fase assume una valenza critica. A Roma o a Napoli il decorso fu negativo. A Foggia, prevalse la pazienza e arrivarono i risultati. Ma stavolta la discriminate coinvolge il pubblico e i tifosi, sono loro a patire, anche più della classifica, che tutto sommato preoccupa ma non è ancora in fase acuta. E anche per il Presidente Giulini, è giunto il momento di affrontare le prime decisioni spinose. Sapranno tutte le parti in causa, boemo incluso, “stringersi a coorte” o prevarrà la necessità di una terapia d’urto?

Da sempre, la scelta di un tecnico che richiede l’adesione ad una scuola di pensiero implica la rinuncia alle sfumature di grigio. Esaltante come pochi altri quando la macchina gira con le giuste componenti, dolorosamente Zeman quando i meccanismi sembrano incepparsi.