Petit: di nome, ma non di fatto

In estate, aveva fatto scalpore la notizia del drone che avrebbe spiato gli schemi della Francia, in Brasile: a metà tra il gioco e la realtà (poi Serbia-Albania ci ha insegnato i possibili danni derivanti da oggetti volanti sul rettangolo verde). Poi ci siamo dimenticati dei transalpini per un bel po’, almeno fino a un paio di giorni fa.

Motivo scatenante: le dichiarazioni di Emmanuel Petit, 44 anni e già campione del mondo nel 1998, a Sport.fr. L’estrema sintesi in questo passaggio: «La France est hypocrite et lâche. Parfois, je me dis qu’en ayant été envahis par les Allemands, on serait mieux dirigés aujourd’hui» (La Francia è un paese ipocrita e vile. A volte mi dico che se fossimo stati invasi dai tedeschi saremmo un paese migliore). Apriti cielo. E pensare che si era partiti per fare un complimento a Thierry Henry, un amico e compagno di vittorie (sia con i club che in nazionale).

Vero: l’ex juventino non è un personaggio semplicissimo da inquadrare, ma la carriera e le vittorie non si discutono (gli assist di mano, beh, quelli sì: Trapattoni ricorda ancora, e anche noi). Eppure, lamenta Petit, i francesi rimangono freddi su un giocatore del genere, che potrebbe avere appena concluso la propria carriera, alla conclusione del contratto con i New York Red Bulls. L’idea di base sarebbe quella di una partita in nazionale quale premio conclusivo di una grande carriera.

Pensiamoci bene: la richiesta non è poi tanto bislacca: in Italia è stata fatta una cosa del genere per Roberto Baggio (era il 2004, cinque anni dopo l’ultima presenza azzurra del divin codino), e prima di lui era successo solo a Silvio Piola, cinquant’anni prima. E in questo caso parliamo dell’attaccante con il maggior numero di marcature (51) con i Bleus. Vista in questi termini, tutto questo polverone suona almeno strano.

Poi però bisogna guardare meglio alle parole di Petit, che ha parlato di invasione tedesca (che c’è stata, anzi: ce n’è stata più d’una), aggiustando poi il tiro (dice che parlava della Germania attuale, non di Hitler né Bethmann-Hollweg) ha giustificato anche gli errori del compagno (l’assist di mano è servito ad aiutare la Francia a qualificarsi: più che una giustificazione, un’aggravante). Nel mezzo, però, anche qualche motivo “vero”: perché c’è una statua per lui fuori dall’Emirates Stadium, e in Francia neanche lo vedono?

Il fatto, come spesso accade, è che il messaggio viene lanciato nel modo sbagliato. A dispetto del cognome, l’Ego di Petit non è di dimensioni trascurabili (come dev’essere, presumo, per chiunque si sia issato almeno una volta sul tetto del mondo); e se il ragazzo era un ottimo centrocampista (unico altro a timbrare una marcatura, nella finale del 12 luglio 1998, dopo la doppietta di un certo Zinedine Zidane), l’adulto è diventato un anticonformista incline alla polemica (non sempre banale).

Pensiamoci bene: nel 2006, prima della vittoria mondiale, un Cannavaro aveva detto grossomodo che il calcio italiano è così (poi dovendo correggere il tiro). Cioè: già c’era pronunciata un'(auto)assoluzione per sé e il movimento. Petit invece almeno attacca giocatori e nazione: e sull’immobilismo di fronte a un campione che potrebbe chiudere. Almeno in questo non c’è un po’ di merito?

Poscritto. Compiti per casa: come avremmo reagito se a dire cose del genere fosse stato Marcello Lippi, o Zdeněk Zeman, o Mario Balotelli?

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Pietro Luigi Borgia