Il segreto del calcio è il romanticismo con il quale lo si guarda.
Gli occhi — il filtro che gli applichiamo sopra, più che altro — fanno tutta la differenza del mondo: è un attimo passare dall’aver visto una partita bellissima e ricca di gol all’aver ammirato per novanta minuti uno dei giocatori più talentuosi sul palcoscenico calcistico attuale in tutto il suo splendore. Dipende da cosa si decide di osservare e da come lo si guarda.
Ieri sera ho scelto di tenere Roma-Inter in sottofondo, mentre il mio sguardo seguiva il numero 15 della Roma per tutto il campo. Ogni suo movimento, ogni sua giocata, ogni sua indicazione a un compagno. Tutto rivolto all’estrema bellezza, tutto con un obiettivo comune: la perfezione.
Di lui, la penna finissima — nonché la mente — che è Paolo Condò sulle pagine della Gazzetta di qualche mese fa ha scritto la più bella definizione possibile:
“Elevarti a principe nella città che adora un solo re è un esercizio difficile, eppure Miralem Pjanić c’è riuscito talmente bene da restare malgrado la carriera lo spingesse altrove.[…]È un principe per classe e nobiltà, accetta il secondo riflettore (o anche il terzo, o il quarto, non s’è mai messo a contarli) senza farne un problema, fedele al suo re laddove altri anche meno dotati di lui avrebbero cominciato a contestarne la leadership crepuscolare. Ed è per questo che Pjanić, col suo calcio saggio che spesso esplode in conclusioni di visionaria bellezza, è il vero pilastro del progetto scudetto: perché in presenza di un mito come Totti, la Roma non troverà mai un principe di sangue blu disposto a fargli da sostegno meglio di Miralem”.
L’elogio al talento bosniaco potrebbe finire qua, ma la sua prestazione tattica espressa in Roma-Inter è stata talmente altisonante che non è possibile non magnificarla. Perché se Miralem Pjanić non è perfetto, poco ci manca. Di sicuro è il centromediano metodista moderno.
Nel calcio dei “Sistemi” e dei “Metodi” (che potrebbe tranquillamente essere un capitolo a parte, ma non è il protagonista del ragionamento) il centromediano metodista era un giocatore che, oltre a difendere, sapeva impostare l’azione in un certo modo e che non si limitava ad allontanare il pallone; un giocatore abituato non solo ad andare sull’uomo o sul pallone, ma uno capace di leggere le situazioni e capire dove potrà andare il pallone. La sua funzione principale era quella di fare da raccordo tra le due fasi — difensiva e offensiva — senza perdere la calma nel traffico nevralgico che rappresenta la propria trequarticampo.
Se a tutte queste caratteristiche aggiungete la classe dei grandissimi, i tempi di gioco di una mezzala di corsa e la sensibilità nei piedi di un vero numero dieci, ecco che avrete l’esatta rappresentazione di Miralem Pjanić.
I due gol segnati contro l’Inter non hanno inficiato il mio metro di giudizio; la sua solida presenza in mezzo al campo in aiuto di un compagno, la sua calma nell’uscire dal pressing avversario con tocchi di prima e uno-due veloci, la sua capacità di servire con il tempo e la forza giusti un compagno in corsa invece sì. È il vero motore del centrocampo della Roma, dietro al quale girano le prestazioni dei vari Nainggolan, De Rossi, Keita, Gervinho, Maicon e compagnia.
Unico giocatore indispensabile, vero principe al servizio di re Totti, romantico artista nel corpo di un giocatore di calcio: Miralem Pjanić.