Mancini e la minestra invecchiata
È stato il primo nome uscito per il dopo-Prandelli. Quello che ha portato il Manchester City a vincere la sua prima Premier League (i due titoli precedenti dei Citizens erano di First Division: massima serie, nome diverso). Quello che richiese una interpretazione ad hoc del regolamento, per iniziare la carriera di capoallenatore alla Fiorentina. E quello che è stato esonerato pochi giorni dopo avere vinto (sul campo) il secondo scudetto di fila.
Ecco, quest’ultima circostanza, alla fine della fiera, è la più curiosa: a esonerarlo fu Moratti, quello che (secondo alcuni) è stato esonerato da Mazzarri (nel senso: quello che ha reso evidente la relativa irrilevanza dell’ex proprietario unico). Un Moratti che sì stravedeva per il Mancio, eppure lo sacrificò sull’altare della Champions. E così, Roberto Mancini viene ripescato, adesso, dalla nuova proprietà.
Già da giocatore non è stato un nome che univa: talento a frotte (e tutti a ricordare un solo gesto: il gol di tacco in acrobazia, al Tardini – la scarsa qualità del video nulla toglie al gesto), ma anche un carattere difficile ed eccessivamente polemico (i meno giovani ricorderanno la sua esultanza contro la Germania Ovest, nel 1988, zittendo il pubblico ma soprattutto chi lo aveva criticato), cosa che in nazionale gli è costata cara (solo 36 presenze: una miseria).
E poi, dicevamo, la carriera ai margini del rettangolo verde: inizio con l’ultima Fiorentina di Cecchi Gori (la versione “giovane”, plasmata dall’allora dirigente Sconcerti) e con polemica, poi due anni più che promettenti alla Lazio, e poi l’approdo in nerazzurro: pallino di Moratti, ma anche legittimato dal gioco e dal fatto che, sulla sua base, è poi nata la squadra del Triplete.
E adesso il ritorno. Diceva ieri il direttore, nel suo editoriale settimanale, che è comunque più che una minestra riscaldata, e che dietro c’è la volontà di Moratti: per carità, tutto è possibile. Quello che è sicuro, e quantomeno curioso, è che questa squadra era di Mazzarri: non soltanto nel senso che l’aveva costruita lui, quanto proprio che i giocatori, per buona parte, giocavano comunque per l’allenatore.
Quello che colpisce è anche l’irritualità dell’annuncio: addio a Mazzarri, dentro Mancini in poche ore, sì, e durante la pausa per le nazionali… ma di venerdì (quando metà pausa è quasi passata). Come se la scelta sia stata presa durante, e non prima della pausa. Come una scelta d’impeto, non del tutto calcolata. Come se la scelta di Mancini sia stata obbligata, più che dal prestigio del nome in sé (tra quelli a spasso, era il nome migliore), quanto dal bisogno di dare un senso maggiore di… Inter. Internazionale, ma anche Inter come storia.
In questo, sì, la scelta è la più “morattica” possibile: il nome è di qualità indiscutibile, ma la scelta è più da figurina che altro. Un po’ come Recoba: il favorito del padrone del vapore, ma era un giocatore non necessariamente funzionale all’idea di squadra di chi sedeva in panchina. In un certo senso, una scelta aziendale per rasserenare i tifosi (e una scelta coraggiosa per Mancio: i giocatori a disposizione sono ben diversi dalle sue attitudini); in un altro senso, una scelta da tifoso vero, nostalgico dei successi che furono (quando Moratti spendeva, anzi: quando la gestione precedente spendeva).
Sia come sia, si riparte subito col derby: battesimo di fuoco, ma anche una potenziale occasione per farsi immediatamente osannare. E non vorremmo che passasse in secondo piano un altro concetto: il campionato italiano ritrova un protagonista. Discusso, discutibile, destinato a dividere: ma mai banale. Se vogliamo ricominciare a far parlare di noi, abbiamo bisogno di tanti Mancini (per tacere di uno Spalletti). Che torna da noi un po’ invecchiato, quindi più scafato ed esperto. Ed è strano dirlo, ma servono personaggi (cioè personalità), ancor prima che persone.