Quello che LeBron James rappresenta, fisicamente, è un essere umano con pochi limiti. Corre più degli altri, salta più in alto degli altri, vede porzioni di campo riservate a pochissimi. Unico cestista a essere talmente superiore al resto dei colleghi da poter giocare quasi tutte le posizioni nella lega più competitiva del Mondo, la NBA.
E questo è più o meno universalmente riconosciuto: James è nato nella top ten di ogni tempo, ci è rimasto per tutta la carriera e la concluderà in quel gruppo ristrettissimo di grandi, con Michael Jordan, Magic Johnson, Larry Bird, Kareem Abdul-Jabbar. Quelli che hanno rivoluzionato, in un modo o nell’altro, lo sport del basket.
Ma cosa c’è oltre la palla a spicchi? Se vi chiedessi di descrivere l’uomo LeBron, cosa direste? Fino allo scorso mese di luglio, vi sareste fermati all’arroganza dimostrata nella presentazione a Miami (il famoso “non uno, non due, non tre…”) o alla costante sparizione del numero 23 quando guidava i suoi Cavs ai Playoff per poi soccombere, talvolta malamente, durante la post season. Poi, cioè da quel 11 luglio 2014, qualcosa è cambiato, un qualcosa per cui una digressione ideologica è quantomeno indicata.
Vi è mai capitato di emigrare, o anche solo di pensarci? Eravate disperati, eravate inesperti, o l’avete fatto in seguito a una serie di eventi. Quando si è lontani da casa si ha l’atteggiamento spavaldo di chi vuole spaccare il Mondo, di chi si sente libero e irrimediabilmente pieno della fiducia che un passo del genere inocula.
Quando James ha preso i suoi talenti ed è volato a Miami, è successo proprio questo. Con i due amichetti Bosh e Wade voleva dominare l’NBA, e per larghi tratti l’ha fatto. Il sole, il caldo, gli anelli, la gloria. La fiducia è scorsa forte nelle vene di quello che stava diventando un uomo, che vedeva le sue mani tremare sempre meno con la palla in mano durante i Playoff, che capiva da un’organizzazione vincente come si fa ad arrivare fino in fondo alle cose.
Chi di voi è emigrato forse ha anche sentito il bisogno di tornare. Qui si entra nel filosofico, quindi ci limiteremo a dire che una parte delle teorie antropologiche vedono l’essere umano comunque legato al posto in cui è nato. Un filo invisibile che ci riporta indietro, nella speranza e nel desiderio di dominare dove si è cresciuti piuttosto che in una terra che per quanto soleggiata non ci appartiene. Un desiderio inconscio, che molti sfidano, spesso uscendone con le ossa rotte.
LeBron ha sentito questo bisogno primordiale e sotto il sole di Miami ha firmato per non esercitare la clausola che lo avrebbe fatto rimanere in Florida. Con una lettera strappalacrime ha annunciato che la sua casa è l’Ohio e per lui era naturale tornare dove era nato. Nella missiva, affidata alle pagine di Sports Illustrated e che vi abbiamo tradotto lo stesso giorno della sua uscita, quello che sembra un sentimento sincero di appartenenza alla propria terra, il desiderio di vincere con i Cavaliers e rappresentare il rilancio di una zona degli Stati Uniti non propriamente annoverata sulle guide turistiche.
In questo 2015 alle porte, quindi, guardare al numero 23 che lancia il talco nell’aria rarefatta della Quicken Loans Arena va oltre al mero discorso tecnico. Equivale a osservare il più grande atleta del Mondo insegnare all’umanità che aiutare in casa dà più felicità ed entusiasmo che farlo in qualsiasi altro posto. Lo sforzo che dobbiamo fare da spettatori è quello di ignorare il circo mediatico del “Coming home”, le idee vincenti delle agenzie pubblicitarie, e capire che gli spot televisivi su LBJ si limitano solamente a cavalcare quello che è un bisogno primario dell’umanità. Quel bisogno autentico che proprio LeBron ci ha voluto insegnare tornando a Cleveland.
Non sarà facile. La front line dei Cavaliers si pesta i piedi, l’attacco è embrionale in queste prime settimane e la difesa fa fatica come da previsioni prestagionali. Il record è 5-4, lo stesso numero 23 passa da quaranta punti a venti e da percentuali aliene a prestazioni sottotono. Ma è tutto in quella lettera a Sports Illustrated: “Non sarà semplice, non si vincerà subito”. Su questo, LeBron aveva ragione. Come su tutto il resto.