Nel periodo d’oro juventino del primo Trapattoni (1976-86) la squadra bianconera, a suon di successi, fornì l’ossatura della Nazionale. Praticamente tutti i titolari, compresi gli stranieri, erano nel giro o avevano comunque vestito la maglia della propria rappresentativa. Tranne uno.
Granatiere leccese
Sergio Brio, leccese classe 1956, è uno stopper dalle grandi doti atletiche e caratteriali. Alto ben 192 centimetri, si occupa del centravanti avversario. O comunque dell’attaccante più pericoloso. Il suo “modus operandi” comprende presenza fisica, efficacia e correttezza. Cresce nelle giovanili del Lecce, dove conosce il suo primo maestro: Attilio Adamo. Che gli impartisce una lezione utilissima. “Per avere successo, devi rimboccarti le maniche”. Proprio le maniche corte, spesso rimboccate fin sopra i gomiti, diventeranno il suo tratto distintivo. Debutta in Serie B nel 1974. Lo nota la Juventus, che lo porta a Torino ma lo cede in C alla Pistoiese per fare esperienza.
Stopper della Signora
Completa un triennio molto positivo in Toscana, disputando quasi 100 partite. Per lui, due annate in C e l’esordio tra i cadetti nel 1977-78. Le ottime prestazioni, soprattutto regolari, spingono il tecnico juventino Giovanni Trapattoni a richiamarlo in bianconero. Proprio lì, in quegli anni sta spendendo gli ultimi spiccioli di carriera Francesco Morini, grande difensore, 11 volte nazionale e azzurro a Germania ’74. Trapattoni individua in Brio il suo possibile sostituto. I fatti gli daranno ragione. Il roccioso stopper pugliese inserisce la propria tessera nel puzzle difensivo formato da autentici campioni: Zoff tra i pali, Gentile e Cabrini terzini, il libero Scirea a fargli da scudo.
Una bacheca sontuosa
Dopo aver ceduto il titolo prima al Milan e poi all’Inter, la Juventus si riporta a casa il tricolore nel 1981. La conferma l’anno successivo porta in dote la storica conquista della seconda stella. Le affermazioni in patria spingono Brio e compagni a farsi valere anche in campo europeo. Nel 1978 era arrivata la Coppa UEFA, proprio la stagione prima dell’arrivo del leccese. Il 1983 è un anno nero per i colori bianconeri, che devono cedere lo scettro alla Roma e la Coppa dei Campioni all’Amburgo nella famigerata finale di Atene. Il perfido mancino di Magath sarà un punto di partenza verso nuovi trionfi. Nel 1984 viene centrata l’accoppiata Scudetto-Coppa delle Coppe. La stagione successiva arriva il momento di un nuovo assalto alla “coppa dalle grandi orecchie”: all’Heysel di Bruxelles, Juventus vs Liverpool per la corona continentale. L’immane tragedia di quella serata, una vittoria insanguinata che a distanza di quasi trent’anni resta una ferita aperta, lasciano nell’animo di Brio e dei suoi compagni una grande amarezza. Per i bianconeri arrivano poi altri trionfi: la Coppa Intercontinentale, uno Scudetto, una Coppa UEFA. Ad arricchire il palmares del forte difensore, anche tre Coppe Italia (1979, 1983, 1990).
Azzurro amaro
Nonostante i numerosi successi a Torino, che ne fanno di diritto uno dei giocatori europei più vincenti di sempre, Sergio Brio ha una casella vuota nella sua carriera. Quella casella ha un colore: l’azzurro. Infatti, è l’unico juventino di quel periodo d’oro a non aver mai indossato la maglia della Nazionale maggiore. Una particolarità dal sapore amaro. Sembra che il Commissario Tecnico Bearzot non lo abbia reputato tecnicamente all’altezza. Sebbene non avesse i piedi fatati del compagno Platini, la sua tecnica non era scarsa. Ma gli sono stati preferiti negli anni i vari Manfredonia, Collovati, Vierchowod, Ferri e Bonetti. Senza che a Brio venisse concesso un solo minuto. Per lui solo qualche presenza nella selezione olimpica, senza però far parte delle spedizioni per Los Angeles ’84 e Seul ’88. Ritiratosi nel 1990, è stato poi vice di Trapattoni alla Juventus ed al Cagliari. Per lui anche un’esperienza in prima in Belgio, nel Mons. Dopo una salvezza venne esonerato. Oggi è opinionista televisivo e radiofonico.