La lezione di Klas
C’è stato un tempo in cui la Svezia non era Ibrahimović. Se proprio bisognava dire un nome, il più gettonato era quello di Henrik Larsson: terzo a USA 1994, terzo marcatore di sempre con il Celtic (e ha giocato anche con il Barcellona e il Manchester United), sei fasi finali tra Europei e Mondiali, e la ciliegina sulla torta di avere vinto la Scarpa d’Oro nel 2001.
Ma parlare solo di lui significa ignorare tanti altri giocatori di quella generazione di calciatori svedesi: tra quelli da citare per meriti noti a tutti ci sono Thomas Ravelli (143 presenze in nazionale, e quei due rigori parati alla Romania nel ’94), Stefan Schwarz (poi visto alla Fiorentina) o Jonas Björklund (Vicenza), gli ultimi calci di uno Strömberg o di un Thern, un’ala come Ljungberg o quel pazzoide di Thomas Brolin, che brillò per troppo poco; altri invece valgono solo per il sottoscritto, che ai tempi si appassionava ai campionati scandinavi. C’erano Niclas Alexandersson, centrocampista polivalente visto poi in Premier League; o Shaaban, portiere di origini egiziane, o ancora Pontus Farnerud (fratello di Alexander, del Torino).
Qualcuno lo abbiamo visto anche a queste latitudini: mi piacevano Allbäck (arrivato a Bari troppo giovane) e Wilhelmsson (sei mesi incolori nella Roma di Spalletti), e come lui da noi non hanno sfondato gli Isaksson, gli Edman e i Blomqvist. E poi c’erano quelli di mezzo: non troppo talento, ma numeri comunque più che solidi. Curiosamente, sembravano dare il meglio in Puglia, a Bari, sotto la guida di Fascetti: prima Kenneth Andersson e poi Yksel Osmanovski, davanti; in mediana, Klas Ingesson (poi sostituito da Daniel Andersson).
A ripercorrere questa carrellata, comincio a sentirmi, se non vecchio, perlomeno nostalgico. Erano i tempi in cui i beniamini del pallone avevano spesso il doppio della mia età, e io non aspettavo altro che “inchiodarli” sull’album della Panini. Adesso ne è passato di tempo, le figurine sono solo un ricordo del passato, e sul campo vanno dei coetanei (ben più dotati del sottoscritto, in fatto di abilità calcistiche).
Un collante della Svezia terza a USA 1994 è stato Klas Ingesson, poi visto in Italia con le maglie di Bari e Bologna, prima di una chiusura piuttosto anonima nel Lecce. Pur non avendo mai avuto particolari simpatie pugliesi, Ingesson è sempre stato uno dei miei calciatori preferiti: come fisico era un armadio a due ante, centrocampista massiccio, muscolare ma d’impeto e di geometrie. Una specie di Gattuso svedese, con un fisico da granatiere. Non un talento, ma un atleta vero. Ritiratosi nel 2001 a soli 33 anni (con quel fisico, difficile andare molto oltre) e grossomodo sparito dalla circolazione, per quanto riguarda la stampa nostrana.
Questo fino al 2009, con l’annuncio della malattia: mieloma multiplo, una malattia senza cura (come la SLA) che colpisce il sistema immunitario. Malattia che non lascia scampo, e che di solito è tipica dell’età avanzata: neanche un paziente su cinque ha meno di 50 anni. Era difficile, è toccato a Klas. La roccia, il gigante buono. Che prima si era ritirato a vivere in campagna, e solo poi era tornato nel mondo del calcio (come allenatore).
La malattia lo aveva cambiato: da atleta infaticabile era diventato una persona diversa. Se prima aveva bisogno continuo di novità, adesso sapeva di dover spendere tutto il proprio tempo migliore per gli altri, e soprattutto per la famiglia. Serio, corretto, tenace: queste sue caratteristiche gli erano presto valse la fascia di capitano in quel di Bari. «Mister, ma non parlo l’italiano», disse; «Non fa niente: fallo col cuore», rispose l’allenatore Eugenio Fascetti. Aveva visto giusto.
Il cuore è lo stesso che gli ha permesso di allenare l’Elfsborg, di vincere una coppa nazionale e di lasciarlo nelle zone nobili della classifica (attualmente lotta per il secondo posto), quando due settimane fa ha annunciato l’addio, ufficialmente per curarsi meglio. Lo stesso cuore con cui salutava i propri tifosi, festeggiando (in carrozzina) davanti a loro. «Klas rappresentava il meglio del calcio svedese. Il grande cuore, il pensiero sempre alla squadra, al collettivo, lottare per gli altri senza risparmiarsi mai» ha detto Thomas Ravelli su di lui.
Sono passati cinque anni: di norma, nessun paziente sopravvive più di tanto a questa malattia. Tutti sapevano che alla fine sarebbe stata una sconfitta; ma a testa altissima, come da suo stile. Ciao, Klas: continua a insegnarci la vita, se puoi, da lassù.