L’idea non è originale, ma la novità è che ora l’ipotesi va corroborandosi.
La Premier League potrebbe esportare un’intera giornata del proprio campionato all’estero. Magari Everton-Chelsea si giocherebbe a Singapore, Manchester United-West Ham in Qatar e Liverpool-Aston Villa a Bologna. Come un Cirque du Soleil che porta in giro per il mondo i propri spettacoli migliori, anche il calcio avrebbe la propria truppa di Globetrotters incaricata di esportare il brand per il mondo, grazie al marketing del corner e alla promozione globale del dribbling.
Se a prima vista quest’idea ci riporta all’inizio del secolo scorso, quando in mancanza di appuntamenti internazionali le squadre più titolate fissavano amichevoli world wide per rivendere le perline agli indigeni del pallone, oggi in parte già avviene qualcosa del genere, basti pensare ai contratti conclusi dalla Lega Calcio italiana per disputare a Tripoli o Pechino le finali di Supercoppa.
In passato, sempre in Premier League, si era ipotizzata l’introduzione di un’ulteriore giornata, la “trentanovesima”, una sorta di extra-classifica da rivendere sui palcoscenici interessati. Oggi la novità consisterebbe nel coinvolgimento di partite con punti in palio e peso specifico in classifica.
Del resto, gli appuntamenti internazionali per club non bastano più. O almeno, possono bastare a noi spettatori europei di Champions ed Europa League, appesantiti da gironcini di qualificazione che dilatano il pathos e raddoppiano gli appuntamenti, ma non ai fruitori globali del pallone, che già ora ben ripagano amichevoli estive e tournee natalizie. E come in un’economia globale si incoraggia il network d’impresa ai fini dell’internazionalizzazione del prodotto, così anche la Premier League nel suo insieme, come portatrice capofila di interessi aggregati, vorrebbe muoversi con requisiti consortili per contrattare al meglio l’appalto della propria immagine alle emittenti televisive.
Un meccanismo che conviene economicamente a tutti, andando ad agire sulle economie di scala ed allargando le platee. Ci guadagnerebbe la Premier League nel suo insieme, i club, i giocatori che manterrebbero alte le proprie remunerazioni, i procuratori che potrebbero trattare l’ingaggio di nuovi Buffalo Bill da portare in giro per il mondo con il circo “Pace e bene” del pallone. Anche perché, probabilmente sarebbe solo l’inizio.
Magari ai tifosi locali piacerebbe un po’ meno, ma qui bisogna pur capire che, se dall’America e dalla Russia, dalla Cina e dalle Isole Cayman (e paradisi fiscali analoghi) si continua ad investire su squadre e calciatori, acquisendo pacchetti azionari di maggioranza, interessando fondi di investimento, progettando stadi e centri commerciali, illuminando a led e rinnovando i ‘tube’, bè, a un certo punto il tifoso di quartiere tutto sandwich e sciarpetta sociale, dovrà anche rendersi conto che la propria appartenenza al club è condizione necessaria per la sedimentazione locale, ma non sufficiente ad assicurare la remuneratività dell’investimento.
Da anni, i maggiori club europei fanno trapelare l’interesse per una Superlega dei grandi club, un Olimpo di bacini di utenza che assicuri la stabilità degli introiti grazie ad una programmazione pirotecnica. Ma finora, l’idea romantica del calcio nazionale, è sempre prevalsa, seppure negli anni il fascino del calcio di provincia sia finito confinato in ambiti di visibilità ridotta.
Se la proposta prende piede (e palla), toccherà alla Premier inaugurare le nuove rotte commerciali organizzate. Per quanto riguarda l’Italia, stante l’attuale appeal del nostro campionato, il rating e l’outlook degli Standard&Poor’s del calcio suggerirebbero che, per ora, la cosa non ci riguarderebbe. A meno che, da qualche parte nel mondo, non vogliano aprire un outlet del pallone.