Gli anni novanta sono stati indiscutibilmente quelli di Michael Jordan, dal 2000 in poi è stato un assolo o quasi di Kobe Bryant – intervallato da qualche melodia Spurs – mentre nelle ultime quattro stagioni abbiamo visto LeBron James fare il salto di qualità decisivo verso la conquista dell’anello, tanto che poi è arrivato immediatamente il bis, seppur in maniera abbastanza rocambolesca. Gli ultimi due personaggi citati, ieri notte, hanno fatto il ritorno a casa: il #24 semplicemente si era preso una pausa per via dell’ultimo infortunio, quello che secondo molti avrebbe messo fine al vero Kobe, il miglior attaccante uno contro uno della lega che da solo era in grado di vincere una partita. E con uno contro uno intendo non solo l’aspetto tecnico ma anche quello fisico e soprattutto mentale: ti distruggeva con la testa ancora prima che tu fossi in grado di reagire con le gambe. Per questo e per mille altri motivi, per il Kobe questo sarà sicuramente l’anno più importante della sua carriera. Per quanto riguarda il prescelto, invece, il ritorno è stato effettivo; e dietro tutto questo ci dev’essere inesorabilmente uno sceneggiatore tanto arguto quanto fantasioso, perché presentarsi sparando una tripla senza ritmo da otto metri e sentire solo il rumore del cotone, beh… tanto di cappello, seppur sia soltanto preseason. Che sia il leitmotiv di tutta la stagione di Cleveland? Blatt spera proprio di no.
Un motivo per il quale Kobe è soprannominato “The Black Mamba” è sicuramente l’orgoglio. E nessuno si sarà sentito più ferito di lui quando, contro i Nuggets, il suo primo tiro non ha nemmeno raggiunto il ferro. Sentiva già il rumore dei nemici, per citare un personaggio famoso dalle nostre parti, e allora ha pensato bene di tirare fuori tutto l’arsenale già dalla prima amichevole: svitamento dal post basso, jumper in corsa, tiro piazzato e tanti, tanti assist. Questi Lakers non faranno strada sicuramente, ma rivedere Bryant nel suo habitat naturale è una bella notizia per tutti noi appassionati di pallacanestro; perché questa lunga degenza lontano dal parquet lo ha costretto ad affrontare la preparazione più difficile della sua carriera. Parole sue. E allora perché non limitare il chilometraggio, allungando la carriera, fidandosi un po’ di più dei suoi compagni di squadra? Ragionando a freddo forse non è l’anno giusto per diventare improvvisamente uomo-assist, ma cosa ha da perdere esattamente? I Lakers non faranno i playoff nell’ovest più competitivo che io ricordi e, a dirla tutta, tifosi e dirigenza losangelina sperano con ogni forza di disputare una regular season orribile per andare a trovare un nuovo Randle, se non meglio. Il talento gialloviola si è presentato con blocco, roll verso canestro e schiacciata imperiale: se il buongiorno si vede dal mattino, Los Angeles ha pescato il jolly dal mazzo più difficile da interpretare al mondo.
Chi coinvolgerà sicuramente i compagni sarà LeBron James: è tornato a Cleveland per ridare il sorriso alla sua gente, colpita da una crisi probabilmente con pochi precedenti simili. E non potrà farlo se non si fiderà dei propri scudieri, Kyrie Irving e Kevin Love, perché da solo nell’NBA non ha mai vinto nessuno, nemmeno Jordan. Le incognite sono tante ma, almeno, la testa di James sembra essere quella giusta. In pochi avevano dubbi, io ammetto di aver pensato per più di qualche istante che James volesse tornare da predicatore nel deserto, invece è dimagrito chili su chili per adattare il proprio gioco alle esigenze della squadra. Un fattore che nel 2010, quando portò il suo talento a Miami, non era decisamente nelle sue corde. Da lì a dire che vincerà il titolo c’è più di un mondo in mezzo, però partire con il piede giusto e togliere un po’ di pressione dall’Ohio può sicuramente giovare ai tanti talenti futuribili del roster dei Cleveland Cavaliers. Anche se, per chi si fa tatuare sulla schiena “The Chosen One”, la pressione e l’ansia da prestazione dovrebbe essere pane quotidiano.
Per una ventina di giorni si scherzerà, poi il via alla regular season aprirà le danze alla prima stagione italiana con un italiano Campione del Mondo in campo. Il ragazzo dei biscotti, chiamato così e preso in giro perché ai tempi di Golden State adorava mangiarne in quantità industriale – tanto da compromettere anche la sua condizione atletica – ha passato l’estate più entusiasmante della sua vita a lavorare sodo in palestra, per tornare ancora più forte di prima. Che sia merito di Popovich o meno non c’interessa, Marco: siamo orgogliosi di te e di quello che hai fatto, ma l’esserti creato questa mentalità dopo anni e anni di panchine è ciò che veramente deve farti pensare “ce l’ho fatta”.