Quale allegria
Quando un allenatore con il timore di osare incontra un allenatore con degli schemi impavidi, l’allenatore conservativo è uno sconfitto in casa. Una parafrasi eastwoodiana un po’ indotta, ma corrispondente a quanto si è visto a San Siro domenica.
Chissà se Mazzarri conosce Erica Jong, l’autrice che negli anni ’70 scrisse “Paura di volare”, con riferimento alla libertà sessuale. Di certo però anche la libido agonistica dell’Inter risulta poco definita, tra l’esuberanza tracimante vista contro il Sassuolo e il crollo prestazionale vissuto al cospetto dei baldanzosi zemaniani, giovani capaci di attaccare in nove e privi di remore nel denudare la propria metà campo, pur di dimostrare il proprio nerbo atletico.
Dopo il Napoli sconfitto in casa dal Chievo, ecco arrivare un altro tonfo interno tra le pretendenti al terzo posto. Stavolta ancor più fragoroso, perché aderente a quanto mostrato in campo, senza che la sorte abbia inciso in maniera rilevante, fatta salva la tradizionale carezza benevola riservata agli audaci.
Mazzarri si è addossato prontamente le responsabilità, ammettendo di aver sbagliato nella gestione delle turnazioni in campo e cercando di circoscrivere l’accaduto. Ma la sensazione che vi sia qualcosa di sistemico, nelle fragilità esistenziali di questa Inter che si sbriciola proprio quando sembra aver irrobustito le fondamenta, resta. Carenze che si palesano sia nell’organizzazione difensiva, con i centrali esposti al papocchio di fronte a percussioni insistite, sia nella gestione della palla a centrocampo, dove Hernanes e Kovacic si alternano in giochi di luci e ombre, e anche davanti, dove pesa la condizione deficitaria di Palacio e Osvaldo.
Ma proprio il confronto con Zeman sposta l’attenzione anche sull’imprinting modellato a monte delle prestazioni dei singoli. E’ probabile che le fortune del boemo incontreranno rovesci alterni cammin facendo, eppure rimane viva la lezione di un giorno, in cui il Cagliari ha spiccato come una rosa viva sul verde della prateria interista. Il meccanismo di psicologia inversa per cui l’Inter, accreditata come terza forza del campionato, non riesca a superare l’eccessiva prudenza di fronte ai propri spettatori pur contro una formazione tecnicamente più modesta, ma piuttosto si disciolga nello smarrimento collettivo, va ricercato anche in una certa prudenza estrema dell’allenatore, che sembra sempre sul punto di rincorrere i propri giocatori quando si scoprono, per ricordargli d’indossare la maglia di lana.
Con ordine e tenacia le sue squadre hanno sempre dimostrato di saper perseguire obiettivi programmati, che sia un accesso in Champions League (come fu con il Napoli) o il ritorno in Europa, come è stato nella scorsa stagione per l’Inter (raccolta, ricordiamolo, sull’orlo dell’abisso, dopo la gestione Stramaccioni e l’addio di Moratti). Gli obiettivi medi di lungo termine difficilmente gli sfuggono. D’altra parte le avversarie di categoria, dal Napoli del discusso Benitez, al Milan che palesa lacune d’organico, alla Fiorentina annebbiata e spuntata, lasciano supporre che anche quest’anno la soglia d’ingresso al terzo posto sarà posta abbastanza in basso per far valere le virtù attendistiche di Mazzarri. Quel monotono sedersi sulle sponde del fiume ad attendere la consunzione altrui. Senza allegria, direbbe Dalla.
Ma non può essere solo questo a caratterizzare l’ormone della crescita riservato all’Inter. Un po’ come un’adolescenza passata a farsi i muscoli in palestra senza confrontarsi con il carattere vernacolare del mondo, la squadra di Mazzarri accumula proteine ma è carente di endorfine e serotonine. Forse è giunto il momento che anche l’allenatore toscano impari a lasciarsi andare e a prendere confidenza col rischio. Ne guadagnerebbero in allegria sia lui che il gioco dell’Inter.
In mancanza di una Erica Jong che gli tolga la paura di volare, per ora ci ha pensato Zeman.