Home » Spagna all’ingiù

Per Goethe era il paese del vino e delle canzoni; negli ultimi decenni era diventato anche il paese delle banche, della crisi edilizia, e dei successi sportivi: nel calcio, nella pallacanestro, nel ciclismo, nei motori, nel tennis. Certamente non si può dire che si sia trattato soltanto di una serie di eventi recenti (il Real Madrid è vincente da troppo tempo); ma l’esplosione degli ultimi anni è stata fragorosa.

Altrettanto fragorosa è l’attuale recessione. Se prima si viveva di talenti individuali (il campione ti sboccia tra le mani, non puoi programmarlo), negli ultimi dieci-quindici anni abbiamo visto la crescita di un movimento, anzi di più movimenti sportivi. Esempio paradigmatico nel ciclismo: prima c’era Indurain, poi sono arrivagli gli Olano, i Freire, i Sastre, i Valverde e i Contador. E anche uno spiacevole cumulo di controversie legate al doping e al dottor Fuentes.

E il momento attuale è paradigmatico dell’attuale difficoltà di un sistema cresciuto sull’eredità delle olimpiadi di Barcellona (quando ancora organizzarle era un’opportunità e non un disastro), ma che vent’anni dopo mostra la corda, forse scoppiato per… eccesso di successi. E qui veniamo al dunque, perché la concomitanza è dura da digerire.

Prima la nazionale spagnola di pallacanestro, designata da tutti quale finalista e alternativa agli USA, fallisce l’accesso alle semifinali del mondiale casalingo; poi la rappresentativa iberica ha perso lo “spareggio” con il Brasile ed è retrocessa dal gruppo mondiale della Coppa Davis. Per dare un’idea: la Spagna ha 10 dei primi 50 tennisti al mondo nella classifica internazionale ATP.

Troppi successi, dicevamo. E quindi troppo bisogno di replicarli all’infinito; e quindi le rinunce dei giocatori più significativi (in Brasile non c’erano né Nadal né Ferrer); e soprattutto uno squilibrio di potere e di necessità tra atleti e federazioni (cioè tra sport e politica). Nel tennis, ha portato alla retrocessione la squadra vincitrice di cinque delle ultime 15 edizioni. In senso più lato, ha portato a un arretramento del movimento sportivo. Era evitabile?

E qui sta il punto. Come nell’economia ci sono alternanze di fasi espansive e recessive, lo sport non fa eccezione. Ci sono generazioni più o meno fortunate; ma, soprattutto, c’è bisogno di rinnovare forze e pensieri. Se il proprio atleta migliore (un Nadal reso logoro dai tanti successi) chiede aiuto e di essere “risparmiato”, non lo si può certo ignorare. Ma non si può neanche non guardare al fatto che il momento è passato, e tutti invecchiano. Come il Barcellona che sull’Apoel riesce a vincere soltanto di misura.

In altre parole, e qui sta la lezione per il nostro movimento: raggiunto il picco, c’è la discesa. E c’è bisogno di saperla gestire. In Italia abbiamo avuto momenti altissimi a cavallo tra i due millenni, ma adesso viviamo nuovamente di estemporaneità. (Piccola polemica: l’elezione di Tavecchio, in questo, sembra l’apoteosi dell’estemporaneo.) Il guizzo c’è ancora (come è successo a Contador nell’ultima Vuelta), e anche la qualità (come nella MotoGP già ipotecata da Marc Márquez); la progettualità però adesso stenta. La Spagna comincia a normalizzarsi; noi quando lo faremo?