A volte ritornano. Partito quasi nottetempo, rimpatriato dopo aver mostrato poco spirito di adattamento, Jeremy Ménez sembrava destinato a spendere la propria carriera in patria, incapace di integrarsi con il nostro campionato e forse anche con gli altri. Ce lo ricordavamo chiuso e introverso, certamente dotato di grandi numeri, ma troppo spesso vittima della propria incomunicabilità, come una monade leibniziana o un brasiliano imbevuto di saudade.
Nel suo transito romano, in molti avevano scommesso sul suo talento. Uno come Bruno Conti lo disse chiaramente: “è più forte di me”, mentre qualcun altro si lanciava in paragoni con Cristiano Ronaldo. Tanto più dopo che Ménez si esibì in alcune giocate d’alta scuola, come quando incantò il pubblico con un gol in dribbling e fucilata all’angolino opposto contro l’Udinese oppure quando entrò in porta con la palla, dopo aver superato in doppio passo per vie centrali il portiere del Cagliari. In quegli anni, Ménez giocava con la maglia numero 94, in omaggio alla banlieue 94, dove era cresciuto, e nel tempo libero si dedicava al rap. Troppa distanza tra le stigmati di provenienza e la rumorosa esuberanza capitolina. Fosse stato vivo Gianni Brera, magari avrebbe spiegato lo scarto ambientale richiamando le difformità antropologiche tra la fierezza riservata e merovingia del longilineo nordico e la rumorosità estroversa e vaccinara dei discendenti papalini. Fatto sta che alla lunga, l’integrazione fallì, le strade si divisero e Roma continuò a esistere anche senza Ménez,
Il ritorno in Francia confermò i chiaroscuri d’immagine di un giocatore brillante nel PSG di Carlo Ancelotti, poi disperso nell’ambiente sotto la gestione Blanc, fino a finire in scadenza di contratto.
Un’occasione imperdibile per il Milan, che da qualche anno investe parecchio nelle occasioni a parametro zero, nella convinzione che anche al mercato delle pulci, l’occhio dell’intenditore sappia scovare il Monet sepolto nella cantina del prozio.
Fin qui tutto bene, può legittimamente affermare la dirigenza rossonera. Proprio Ménez, nelle prime due giornate è stato il giocatore più sorprendente del campionato. Un gol nella prima giornata, una prestazione da fenomeno nel 4-5 di Parma, in qualità di miglior attore protagonista all’allegro festival del gol. Schierato come falso nove e vera ala, Ménez ha dimostrato che il pezzo forte del suo repertorio, quella capacità propria dei campioni di fuggire portando palla al piede, non solo non s’è opacizzata, ma risplende di nuova luce. Un rigore procurato dopo una lunga fuga per la vittoria, un incrocio dei pali, l’assist verticale che ha dato il via all’azione corale del secondo gol (rifinita da Abate e conclusa da Honda) e quel gol che ha conquistato la scena del web: inserimento parabolico in velocità a ghermire un retropassaggio corto, aggiramento del portiere e colpo di tacco sovrimpresso come una pennellata impressionista, in bella mostra al museo d’Orsay.
Ma la vera rivelazione è arrivata nel dopopartita. Tra i microfoni adoranti e i convenevoli di rito, Ménez è sembrato sereno e accomodante. Una novità per chi se lo ricordava accigliato, vagamente fuori posto, il fiato corto di chi non è abituato a portare la cravatta. Inevitabilmente, gli chiedono se non si fossero sbagliati a giudicarlo, gli parlano di rivincite e lo esortano a imboccare il binario oliato della frase fatta revanchista. Ma la spiegazione, limpida, arriva proprio da Ménez: “Sono cambiato”. La consapevolezza di una evoluzione personale che diventa ammissione retroattiva e proclama rivolto all’orizzonte. Non proprio qualcosa di consueto, in un mondo dove è più facile maturare per anzianità che tracciare volontariamente una linea tra le età della carriera e della vita.
Se dunque Ménez è il giocatore determinato visto in quest’avvio, può sorridere il Milan, ma possono esserne contenti anche gli spettatori della Serie A: i numeri da campione non si vedranno soltanto in Liga e Premier, un grande giocatore è arrivato anche da noi. Anzi, ci è tornato.