Due cavalieri per il Re

La caccia al terzo anello da parte di LeBron James riparte da Cleveland, Ohio. La sua casa, perché vincere per la gente con la quale sei cresciuto sin da quando eri solo una promessa alle superiori, beh ha tutto un altro sapore; la sconfitta subita per mano dei San Antonio Spurs lo ha cambiato, e lo si è intuito sin dall’intervista post partita quando, interrogato sul fatto che i texani fossero o meno la più grande squadra che lui abbia affrontato, ha risposto: “Sicuramente. La pallacanestro andrebbe giocata in quel modo: pochi palleggi, tanti passaggi, tagli e tiri. Ma solo per il bene della squadra, non per la gloria personale“. Una piccola frecciatina a Spoelstra, forse, colpevole di averlo forse messo troppo nella condizione di leader solo sull’isola, un concetto che ha deresponsabilizzato troppo i suoi compagni, in primis quel Dwayne Wade che nelle ultime Finals è sembrano lontano parente del fenomeno che è sempre stato e sempre sarà. Una situazione simile si era verificata nel 2011, sempre contro una squadra texana. I Dallas Mavericks vinsero il Larry O’Brien Trophy grazie a un pazzesco, strepitoso all’inverosimile Dirk Nowitzki, spalleggiato ottimamente da Jason Terry e Tyson Chandler; una sconfitta bruciante che cambiò molto la testa dell’immaturo LeBron, quello che prendeva in giro il tedesco negli spogliatoi per colpa dell’influenza. Bravate simili, da quel giorno, non ne ha più commesse: si è visto solo un giocatore in grado di migliorare le prestazioni dei compagni, a volte sacrificando anche qualche statistica per mettere in ritmo il Mario Chalmers di turno. Ma solo così si ha la speranza di arrivare a giugno senza che l’unico pensiero riguardi le prossime vacanze estive.

A casa ritroverà Kyrie Irving e Kevin Love, due scudieri pronti a battersi per portare l’anello in una città che non ha mai potuto assaporare una gioia simile: la trade che ha portato l’ex ala dei Wolves a diventare un Cavalier ha fatto molto discutere negli Stati Uniti, tanto da diventare l’argomento principale delle ultime settimane. Analizzarla sotto tutti i punti di vista è difficile, ma ci proverò nel tentativo di essere il più obiettivo possibile. Punto numero uno, il fattore Lebron. E’ evidente che James abbia chiesto garanzie tecniche allo staff di Cleveland ancor prima di firmare il contratto biennale: e quando il #23 chiama, indipendentemente dal tuo ruolo nella NBA, devi rispondere senza se e senza ma. Nella famosa lettera in cui esplicava le motivazioni del ritorno a casa, James spiegava quanto fosse una decisione difficile perché sarebbe stato difficile essere competitivi nell’immediato: niente di più sbagliato, e questo lo sa benissimo anche lui. Togliere un po’ di responsabilità a compagni e allenatore, però, non può far altro che evidenziare quanto il LeBron giunto a Cleveland nel 2014 sia profondamente diverso da quello che ha lasciato l’Ohio nel 2010. “Not one, not two, not three, not four, not five…” ricordate questo simpatico siparietto con il quale ironizzava sul numero di titoli che avrebbe vinto con Wade e Bosh a Miami? Quelle parole sono probabilmente la motivazione principale per il quale, dopo la prima stagione, in Florida si ritrovarono con un pugno di mosche tra le mani. Troppa pressione su Spoeltra, un allenatore poco adatto a certi livelli, ma anche troppe responsabilità sulle spalle di comprimari come Chalmers, Jones e Haslem, sciolti come neve al sole nel momento del bisogno. Tornando alla trade in senso stretto, Wiggins diventerà sicuramente uno dei migliori giocatori nel panorama NBA, ne sono sicuro al 99,9% – anche se questa percentuale ultimamente fa un po’ ridere, chiusa parentesi – ma se hai in squadra LeBron James il tuo obiettivo dev’essere vincere subito, non tra due o tre anni. Perché il futuro è adesso.

Il rovescio della medaglia premia anche i Minnesota Timberwolves, i quali hanno massimizzato il ricavato dalla cessione di Kevin Love che, altrimenti, al termine della prossima stagione avrebbe lasciato Minneapolis in virtù della scadenza contrattuale. Wiggins, Bennett e Young sono invece il cuore pulsante di una nuova squadra che, con Rubio, Martin, LaVine, Dieng e Pekovic punta a impressionare in un’ovest che giorno dopo giorno acquista sempre più competitività. Il tutto quadra ancora in maniera più netta guardando il “lato salariale” della questione: Cleveland avrebbe avuto pochi margini di manovra sul mercato free agent e ha ottenuto il giocatore che più cercava nel ruolo scoperto. Una Minnesota in perenne ricostruzione aveva bisogno praticamente in qualunque ruolo eccetto point guard e centro, mentre Philadelphia cercava con ansia un modo per liberare spazio nel salary cap e acquisire scelte nei prossimi draft.

Tutto pronto e apparecchiato per le finali NBA in quel di Cleveland, quindi? No, assolutamente. In realtà non sarà facile amalgamare tutto questo talento, un po’ come non lo era nel 2010 a Miami; Irving e Love erano abituati a gestire un abnorme numero di possessi per la propria squadra, e questo non sarà possibile. Un conto è sparare quarantelli sapendo di avere venticinque tiri – se non di più – a disposizione, un altro invece è sapere di avere una dozzina di conclusioni al massimo; il play di Cleveland, inoltre, ha sempre avuto la palla in mano per la maggior parte della partita da quando è in NBA. O lui o Lebron, quindi, dovranno fare un passo indietro e giocare più lontano dalla palla, magari in post alto/basso per allungare la quantità di soluzioni disponibili nella faretra della squadra di David Blatt.
Già perché non fosse abbastanza interessante immaginare il tipo di gioco che imbastiranno nell’Ohio, c’è anche un’incognita in più che rende tutto ancora più piccante e saporito: il coach sarà l’ex Maccabi, un tecnico americano che però è cresciuto sotto i dettami della scuola europea. E scuola europea significa, in genere, puntare molto su una difesa di squadra e sulla condivisione della palla, quel cosiddetto sharing ritenuto fondamentale proprio da Lebron per poter fare uno step ulteriore verso la perfezione.

Quanto sono compatibili i nuovi big three della Eastern Conference? Le statistiche dicono che tutti e tre amano tirare dal lato sinistro dal campo, con le percentuali che s’impennano proprio in quel lato del campo. Sapersi adattare sarà fondamentale, ma tutto sarà più facile se a occupare gli spot dall’altro lato del semicerchio ci saranno tiratori come Mike Miller o Ray Allen. Come già detto uno tra Irving e Lebron dovrà accontentarsi di lavorare maggiormente sugli scarichi, mentre Varejao troverà giovamento dal fatto di giocare con Love, uno che apre molto il campo. In un’Eastern Conference in cui Miami è sprofondata dopo l’addio del #6, Indiana ha perso per motivi differenti George e Stephenson in una sola estate sembra che la strada sia spianata per James e Cleveland. Ecco, appunto, sembra e basta.

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Alessandro Lelli