Le parole sono importanti, è un adagio colloquiale che probabilmente abbiamo sentito molte volte. Siccome nell’estate dell’ennesimo anno zero del calcio italiano, di parole ne sono state dette tante, andiamo allora a vedere quali stanno volando in questi giorni, sulle ali dorate del pensiero andante.
Partiamo dal volto novello del milanista Pippo Inzaghi. In un panorama conservatore che procede per passaggi salta-generazionali, dall’apparizione sulla panchina di una squadra di primaria rilevanza internazionale di un tecnico proveniente dalle giovanili, sarebbe lecito aspettarsi la forza delle idee, un nuovo swing che faccia il contropelo ai tempi correnti, la ricerca di strategie da sviluppare in modelli calcistici innovativi. Invece, come dalla credenza di una vecchia zia, all’esordio in conferenza stampa, Pippo ha apparecchiato frasi lucidate come argenteria brillante di vetril e buona per il pranzo della domenica: ritrovare il dna Milan, il club più titolato al mondo, l’etica del lavoro senza sconti e quant’altro convenga ad una buona presentazione aziendale. Segue e conclude, una selva di ringraziamenti per l’occasione concessa (un po’ come gli azzurri dell’atletica dopo i sesto-settimi posti ai recenti europei, sempre soddisfatti e sempre pronti a ringraziare i rispettivi corpi di appartenenza. Ma questo è un altro discorso).
Poche settimane dopo, a conclusione della melodrammatica vicenda Tavecchio, Antonio Conte si è insediato sulla panchina della Nazionale. La conferenza di presentazione ha calcato ancor di più l’accento sulle note della rettitudine virile: la volontà di reclutare solo uomini veri e la cogente necessità di meritare la convocazione.
E sì che da allenatore della Juventus, oltre alle eccelse qualità da motivatore, Conte ha saputo dimostrare anche un’ottima predisposizione al controllo del gioco, attraverso un combinato disposto di ripartenze massive, dialogo tra le punte, sovrapposizioni in corsa e apertura di spazi per gli inserimenti delle mezzali.
Parole che sembrano riannodare il filo con le accuse rivolte da Buffon, De Rossi e dai veterani verso Balotelli e i giovani dopo l’eliminazione in Brasile. Poco cuore, latitanza nelle fasi calde. “La carretta” alla fine veniva sempre tirata dagli stessi, in sintesi. Il ritornello della contrapposizione “giovani – vecchi” è stato questo. Ma alla fine, la “carretta” è affondata portandosi tutti appresso. Nel segno di una dinamica prettamente italiana.
Già, ma se invece ci fosse un’altra verità? E se invece il rilancio del calcio italiano passasse dalla capacità di proporre un calcio diverso? Come ci vedono dall’estero?
In settimana, Diego Pablo Simeone, “El Cholo”, intervistato dalla Gazzetta dello Sport, ha confessato di non seguire molto il calcio italiano (che forse non è più tanto interessante neanche per chi ci ha giocato un decennio abbondante) e ha parlato della ricetta del suo Atletico Madrid: creatività e coraggio.
Come dire, esaltazione dei valori tecnici all’interno di un collettivo e dedizione atletica. Abbiamo citato Simeone, ma un discorso simile potrebbe essere fatto anche per il Liverpool di Rodgers (dove alcuni giocatori si sono trasformati sotto la sua direzione). Ma quando le idee non sbocciano, non si può fare altro che puntare sui principi retorici di base, riassunti da Inzaghi e Conte.
Che sono essenziali, sia ben chiaro. Tuttavia, per passare dal Medio Evo al Rinascimento, oltre agli uomini di valore e ai capitani di crociata, servono anche i geni creativi e le cesure innovative. In un’Italia che ama specchiarsi nel proprio talento innato – inteso tanto come somma dei caratteri storici quanto come dotazione paesaggistico-ambientale – è forse troppo pretendere una maggiore attenzione anche per la qualità del proprio prodotto pallonaro? Le parole sono importanti. Le idee, pure. Nella stagione che sta per cominciare, sarebbe bello che avessero più spazio, accanto ai muscoli e alla retorica della maglia sudata, che forse in Italia, inizia a mostrare il fiato corto.