Farò di tutto perchè a San Pietroburgo mi ricordino quanto Pietro il Grande
Si presentò così Andrè Villas Boas durante la sua prima conferenza stampa da allenatore dello Zenit lo scorso marzo, con una frase ad effetto degna del suo maestro Mourinho e densa di significato. Con poche parole Villas Boas dimostrò di conoscere la storia della città, la cultura e il popolo che andava ad incontrare e allo stesso tempo si prefissò obiettivi importanti, esaltando i pensieri dei tifosi, delusi dall’era Spalletti. Un giovane esperto, un ossimoro che aveva le credenziali per governare uno spogliatoio fumantino come quello che aveva avuto in dote (o meglio, si era creato con la sua complicità) il tecnico toscano. Un allenatore affamato, in cerca di riscatto, proprio come lo Zenit. Il binomio era destinato ad essere fruttuoso e il primo semestre ha confermato queste indicazioni.
La vittoria a Liegi, seppur risicata nella misura, è soltanto l’epilogo di un’estate fino ad ora perfetta, sia dal punto di vista dei risultati che della gestione delle risorse. Il mercato è stato indovinato, con due colpi come Garay (uno dei migliori difensori al mondo) e Javi Garcia (giocatore che serviva assolutamente dopo la partenza di Denisov di due anni fa) realizzati senza esagerati sborsi di denaro; l’approccio alle gare e al lavoro quotidiano è mutato: l’atmosfera è più gioviale e sul campo si vedono idee, voglia, desiderio di vincere. Nemmeno il fortunoso ko patito a Limassol ha sgretolato i buoni propositi del tecnico iberico, il quale ha saputo modellare la squadra sia sul piano mentale, fondamentale a questi livelli, che su quello del gioco, fornendo numerose opzioni in fase offensiva (lo dimostrano i tanti gol segnati in questa stagione e soprattutto le azioni create).
Il grande merito di Villas Boas, però, è stato quello di rivitalizzare e motivare i giocatori chiave di questa squadra: Rondon si è trasformato completamente, diventando un centravanti di livello internazionale, Hulk ha ripreso in mano le sorti della squadra mentre i giovani russi come Smolnikov, Shatov e Fayzulin si sono integrati alla grande nelle sue metodologie. Ma la grande opera di AVB è un’altra: la rinascita di Danny. Se l’allenatore vuole essere il nuovo Pietro il Grande Danny potrebbe essere accostato in una bella metafora ad Aleksandr Pushkin: l’autore di Evgenij Onegin non faceva altro che raccontare attraverso la sua nobile penna la città di San Pietroburgo, costruita su desiderio di Pietro il Grande. San Pietroburgo è una città speciale, che ama la sua cultura e la sua storia: lo Zenit e San Pietroburgo sono un tutt’uno, una forza univoca che anche i giocatori sentono: forse gli avrà chiesto proprio questo AVB a Danny, di essere il suo Pushkin e di trascinare lo Zenit con le sue fantasiose trame sul campo di gioco. Il rinnovo del contratto, che lo legherà praticamente a vita al club, testimonia l’affetto di Miguel verso questi colori e la volontà di raggiungere nuovi obiettivi con la maglia azzurra. Sperando che i gravi infortuni del passato non si ripresentino più.
Con Villas Boas lo Zenit ha acquisito autorità e può guarire il suo tallone d’achille, quello delle trasferte europee. Se dovesse continuare su questi binari a San Pietroburgo quest’anno si divertiranno, finalmente, anche in Europa.