La battaglia per la verità

Sabato 2 agosto, c’è ancora del giallo sulla prima pagina della Gazzetta dello Sport; la stessa gradazione utilizzata lunedì scorso per esaltare lo splendido trionfo di Nibali al Tour. Stavolta, però, ci si fa poco caso, perché il primo impatto con la rosa è rivolto a quel titolo a caratteri cubitali, quella frase che noti immediatamente ed è capace di farti venire un’immediata voglia di leggere, di approfondire, di capire cosa sta succedendo. La necessità di avere una spiegazione a una notizia, che all’improvviso ha colpito parecchi sportivi italiani.
Ci si accorge poi che quanto viene raccontato in quell’articolo è un qualcosa di relativamente diverso da ciò che l’anteprima ha fatto immaginare in precedenza. Dietro, infatti, c’è una storia particolare, una drammatica e stressante battaglia di una madre alla ricerca della verità dopo aver subito la privazione di un figlio in un triste giorno di San Valentino. Avere la certezza di sapere cosa sia accaduto in quell’albergo romagnolo è l’unica cosa che le è rimasta da fare poiché, come lei stessa ha ammesso, nessuno le riporterà più in vita Marco Pantani. Una richiesta del tutto lecita perché è giusto avere la libertà e la possibilità di dubitare quando gli elementi a disposizione non convincono pienamente. Certo, a tanti anni di distanza risulta difficile trovare delle risposte e fa male vedere che qualcosa si sia mosso solo dopo tanto tempo in paese dove di misteri irrisolti ne abbiamo avuti sin troppi.

A questo punto, però, mi sento in dovere di essere d’accordo con quanto espresso da Vincenzo Nibali, il recente vincitore del Tour de France, in un’intervista rilasciata su tutta questa vicenda. “Non credo che faccia bene al ciclismo tornare a parlare della morte di Pantani, e che non faccia bene nemmeno a Marco. I suoi tifosi vorrebbero solo ricordarselo per il campione che era, non per quella tragica notte”. Basta solo questa semplice affermazione per far capire che forse stiamo proseguendo verso la strada sbagliata. Noi tutti, sportivi che abbiamo amato il ciclismo e ci siamo emozionati nel vedere il Pirata in giallo, vogliamo sapere la verità, ma dobbiamo fare in modo che questa esca fuori solo tramite il lavoro delle autorità competenti. Inutile stare a discutere tra noi, fare delle ipotesi o immedesimarsi in Sherlock Holmes casalinghi. Questo non fa altro che offuscare la memoria di un campione sportivo e trasformare il tutto nel solito macabro caso di cronaca nera in cui si finisce per perdere di vista la realtà, e si osserva il tutto come se fosse un gioco o un libro giallo in cui mettere alla prova la propria abilità nello scovare l’assassino.

Di storie così ne abbiamo già troppe, fino allo sfinimento. Fermiamoci qui. Lasciamo fare il lavoro a chi di dovere, basta processi e sentenze personali. Possiamo farci un’idea personale basandoci su ciò che leggiamo o ascoltiamo alla tv, ma evitiamo per favore di spacciare il nostro pensiero come verità assoluta. Stiamo vicini a mamma Tonina come a tutti quei genitori e parenti che stanno pagando un destino violento, una sorte malefica e logorante dopo la scomparsa di un caro. Cerchiamo di pensare a Marco Pantani ciclista ed evitiamo subito il collegamento a quel 14 febbraio perché, come sottolinea giustamente Nibali, “non fa il bene di Marco”.

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Elia Modugno