Lo squalo è un animale entrato ormai nel cuore di Hollywood. Dopo il genio di Spielberg in tanti hanno riproposto pellicole con il padrone degli oceani. Squali a due teste giganteschi, capaci di adattarsi in acqua dolce o attaccare sulla neve e camminare. C’è poi chi, come in Sharknado, ha pensato di farli atterrare a migliaia sulla terraferma tramite un violento uragano.
Oggi, invece, ne vedremo uno a Parigi, uno enorme squalo in giallo pronto a raggiungere i Campi Elisi. La popolazione parigina, però, non deve allarmarsi, perché lui è Vincenzo Nibali, lo “Squalo dello Stretto”; non attacca l’uomo, ma solo le salite. Originario di Messina, è cresciuto con il sole e sa adattarsi al caldo, ma la sua versatilità gli permette di trovarsi a suo agio anche a temperature più basse e non ha paura neanche di una nevicata, come ha dimostrato sulle Tre Cime di Lavaredo.
Merckx era il “cannibale”, Nibali, invece, è un predatore di tappe. Più il terreno è ostile, più la sua fame di vittoria aumenta. Pavè, pioggia e cadute non lo hanno intimorito, anzi lo hanno reso ancora più forte. Vosgi, Alpi, Pirenei, appena la strada si fa erta lo squalo va a caccia. Un ciclista di un altro livello, ma questo lo si sapeva già dalla prima tappa del Tour. Nibali, Contador e Froome, tre nomi per un podio già scritto a Parigi a cui mancava soltanto dare l’ordine giusto. Certo, l’assenza degli altri due per ritiro ha permesso ai detrattori del siciliano di rendere meno gloriosa la sua impresa, ma a noi poco importa. Il ciclismo è anche questo, non conta solo arrivare davanti tutti, ma essere anche più forti della sfortuna, un avversario invisibile che può attaccarti improvvisamente con una caduta o una foratura.
Rivedere un italiano in giallo a Parigi sedici anni dopo Marco Pantani, un evento che dovrebbe essere festeggiato con un tripudio di bandiere italiane nella capitale francese. Nibali voleva questa corsa, la attendeva da quasi un anno dopo il successo del 2013 al Giro. Il finale della passata stagione, però, aveva lasciato dell’amaro in bocca e non faceva presagire nulla di buono. Un vecchietto dal nome Horner aveva rovinato la possibile doppietta alla Vuelta, mentre il mondiale di Firenze aveva parlato esclusivamente iberico. Anche l’inizio del 2014, il Giro del Delfinato e la dura lettera di Vinokourov sembravano l’inizio di una parabola discendente. C’è voluto il successo nel campionato italiano per cambiare rotta e far salire le quotazioni del siciliano. A noi piace scherzare e pensare che magari Nibali ha voluto vestire la maglia gialla sin dalle prime tappe per evitare di indossare quella maglia Astana-tricolore che in tanti hanno criticato, paragonandola al campione d’Ungheria.
Battute a parte, il ciclismo, movimento in rinascita dopo un incendio chiamato doping che ha bruciato quasi un decennio di gare, da oggi può annoverare nella sua hall of fame Vincenzo Nibali, uno dei pochi in grado di vincere, in anni differenti, tutte e tre le grandi corse a tappe (Vuelta, Giro e Tour). Di questa straordinaria avventura ci rimarrà senza dubbio l’emozionante pagina dell’Equipe dal titolo “Dantesco” per sottolineare il successo di Aremberg e poi i titoloni di domani per accogliere un’importante pagina dello sport italiano.