Adriano al Terracina? Non sarebbe figlio unico

È iniziata col sentore di bufala e prosegue in odor di santità. Il calciatore brasiliano Adriano, detto l’Imperatore, potrebbe tornare in Italia e ricominciare dalla “serie D”, tra le fila del Terracina. Delle sue memorie, intorbidite dagli eccessi che ne hanno minato il fisico e dissipato il talento, sono ancora vive le cronache popolari. A soli 32 anni, Adriano è già un ex, benché non dichiarato, dopo un paio di stagioni in cui non ha visto il campo. L’impressionante massa muscolare, che nei tempi migliori si trasformava in un fulmineo e poderoso zang tung tung vibrato al pallone, incontenibile anche per gli orli delle reti avversarie, si è tradotto in un quintale di precipitato adiposo, in cui ogni grinza rappresenta la cicatrice mal metabolizzata dei cedimenti al demone dell’eccesso. Probabilmente sapremo a breve quanto ci sia di vero. Sapremo se Adriano accetterà di monetizzare gli spiccioli della propria carriera sul litorale pontino e, nel caso, se gli sia possibile prolungare di qualche anno la carriera agonistica, riacquistando una forma psicofisica quanto meno sufficiente ad affrontare la categoria. O se invece, un po’ vecchio Buffalo Bill al Wild West Show, un po’ ex ballerina di samba esule nei carnevali di periferia, non stia solo raccogliendo gli ultimi gettoni d’ingaggio che agenti e sponsor s’ingegnano a incastrare nella maniera più proficua per tutti. E pazienza se si tratti più di immagine che di rinascita tecnica. Non sarà né il primo, né l’ultimo.

Nel gennaio 2004, uno stanco e bolso Mario Jardel venne ingaggiato dall’Ancona, fanalino di coda della serie A. Goffo, pesante, ancorato a terra dalla zavorra dei propri fianchi, il trentunenne Jardel giocò pochi scampoli di partita che certamente in terra dorica non hanno giovato alla fama di colui che, negli anni precedenti, era stato il miglior colpitore di testa d’Europa. Collezionista di doppie cifre prima, capodoglio arenato sulla riviera adriatica, poi.

Ma risalendo a passati più remoti, il binomio tra campione e piccola squadra ha altri precedenti. E, non ce ne vogliano Adriano e Jardel, ma di ben altro spessore.

Negli anni ’40 infatti, a Busto Arsizio coltivarono a lungo il sogno di veder giocare uno dei più grandi campioni dell’epoca, l’asso ungherese László Kubala. Non meno talentuoso dei contemporanei Puskas, Kocsis e Czibor, che resero immortale l’Aranycsapat ungherese, Kubala scelse un’altra strada rispetto ai propri compagni, quando decise di fuggire dall’Ungheria comunista, nel 1949. Alcuni suoi connazionali che militavano nella squadra locale della Pro Patria, ne favorirono l’arrivo e così alla dirigenza bustocca sembrò essere riuscito un colpo sensazionale. Peccato che a causa della squalifica inflitta dalla Fifa al giocatore, su pressione del regime ungherese, la Pro Patria non riuscì mai a schierare il fuoriclasse magiaro, se non per alcune amichevoli spettacolari. Inutile fu anche il tentativo di una delegazione, partita alla volta di via delle Botteghe Oscure, di suscitare l’intermediazione di Togliatti. L’anno successivo, Kubala passò al Barcellona, che grazie al proprio peso politico ottenne la cancellazione della squalifica. Dal ’51 al ’61, segnò 131 reti in 186 incontri, diventando un eroe della storia blaugrana.

“Mio fratello è figlio unico / perché è convinto che Chinaglia non può passare al Frosinone”, cantava Rino Gaetano. Certo, Chinaglia ha preferito l’avventura americana al Cosmos, ma se non sono passati proprio al Frosinone, altri grandi campioni ci sono andati comunque molto vicino.
Secondo alcune ricostruzioni storiche infatti, negli anni ’40, ad Alatri, presso il campo profughi di Fraschette troviamo il già citato Kubala, in fuga dall’Ungheria e, secondo alcuni, perfino un giovane Puskas. Di Kubala, anziani testimoni ricordano una memorabile partita sul campo Sanità di Alatri. Negli anni, anche altri profughi, per lo più slavi e ungheresi, furono ospitati (o a volte internati) nel campo delle Fraschette, e, pare, in alcune occasioni tesserati nell’Alatri con cartellini d’occasione. (Corre l’obbligo di citare la fonte, il libro “Le Fraschette di Alatri da campo di concentramento a centro raccolta rifugiati e profughi” di Costantini e Figliozzi, rintracciabile sul web).

Ma gli esempi non sono finiti, anzi ce n’è uno ancora più incredibile: “Manè” Garrincha, due volte campione del mondo con il Brasile di Pelé, per alcuni il miglior dribblatore di tutti i tempi, eroe del popolo brasiliano e tra i più grandi di sempre. Quel che non riuscì al principio degli anni ’60 alle più grandi squadre d’Europa, riuscì a fine decennio ad una piccola squadra della provincia romana. Accadde nel ’69, quando Garrincha, ormai alcolista e tormentato da problemi con la giustizia in seguito ad un incidente d’auto e ai suoi divorzi, fu costretto ad abbandonare il Brasile.
Insieme alla nuova moglie, la famosa cantante brasiliana Elza Soares di cui era perdutamente innamorato, si trasferì sul litorale laziale, a Torvajanica. Mentre La Soares si esibiva nei locali della capitale, Garrincha, che ormai aveva smesso di giocare, logorato dall’alcol e dai problemi fisici congeniti, cercò di barcamenarsi dedicandosi ad attività promozionali. Poi però, convinto dall’ex calciatore della Roma Dino Da Costa, con cui aveva militato nel Botafogo, si decise ad accettare un ingaggio nel Sacrofano, squadra militante in Prima Categoria, per un quadrangolare a Mignano Monte Lungo. Narra la tradizione orale che, seppur depresso e rovinato dall’alcolismo, Garrincha infilò una doppietta vincente, direttamente dalla bandierina del calcio d’angolo. Anche in questo caso, corre l’obbligo di segnalare la fonte della notizia, il blog “thebegbieinside.com” (nell’articolo “Mi padre ha giocato ‘co Garrincha nel Sacrofano”, ripreso poi da molte altre fonti).

Adriano al Terracina? Non è poi così impossibile allora, visti i precedenti. E di certo, non sarebbe figlio unico.

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Paolo Chichierchia