Il ritorno del Re

Era nell’aria da tempo, le voci si rincorrevano sempre più frequenti e le lacrime al termine di gara 5 delle Finals NBA avevano fatto presagire un cambiamento radicale nella vita di LeBron James, che nel 2010 aveva lasciato un vuoto incolmabile a Cleveland, distante pochi chilometri dalla sua Akron. Quella sensazione di tristezza e delusione, provata dai tifosi dei Cavaliers qualche anno fa, è stata finalmente sostituita dall’euforia di avere nuovamente il miglior giocatore al mondo nella propria squadra, nella città in cui è nato e cresciuto e dove ha ancora un compito importante da svolgere: portare il Larry O’Brien Trophy tra la sua gente.

E ci riuscirà, ne sono sicuro. Ho aspettato qualche giorno prima di commentare la notizia, ma a bocce ferme ne esce sicuramente uno scenario importante per i Cavaliers, che passano dall’avere una squadra in Lottery nella Eastern all’essere una pretendente seria almeno per le finali di conference, vista la mancanza di squadre competitive sulla costa atlantica. Si aprono scenari diversi e tutti intriganti allo stesso modo, considerando che in panchina ci sarà David Blatt, fresco vincitore dell’Eurolega con il Maccabi Tel-Aviv, un americano cresciuto cestisticamente in Europa. A tutto questo aggiungiamo il fatto che nella città dell’Ohio giocheranno, per la prima volta nella storia, quattro prime scelte assolute contemporaneamente: LeBron James, Kyrie Irving, Anthony Bennett e Andrew Wiggins. Potrebbe sembrare un “trova l’intruso”, visto che il terzo di questa lista ha lasciato più di qualche dubbio – eufemisticamente parlando – sul suo effettivo talento, ma si tratta di un lungo e, in quanto tale, va aspettato almeno un paio di stagioni. Insieme a loro ci saranno anche Dion Waiters, Tristan Thompson e Anderson Varejao, tre giocatori che alla corte del Re potrebbero elevare il proprio livello di gioco. Il primo potrebbe ritrovare il ruolo di sesto uomo che tanto amava a Syracuse, al college, mentre Thompson potrebbe essere la pedina di scambio utile per arrivare a Kevin Love, in scadenza di contratto nel 2015 con i Minnesota Timbervolves. Il centro brasiliano, invece, potrebbe diventare quel gregario utile sotto canestro che non ha mai avuto nei Miami Heat, una specie di Chris Andersen di lusso. Nel caso arrivasse anche KL42, a quel punto Blatt avrebbe tra le mani un quintetto pazzesco, con un mix di esplosività, talento, giovinezza e muscoli sotto canestro. Certo la panchina sarebbe quanto meno da rivedere, ma per quello ci sono i veterani: Ray Allen potrebbe avere ancora qualche cartuccia da sparare e, in questo caso, seguire James sarebbe forse la scelta più logica, viste le ottime capacità di passatore del #6. Qualora si rimanesse con il roster attuale, invece, rinunciando alla corsa per Love – almeno sino alla prossima offseason – Cleveland potrebbe quantomeno faticare nel breve periodo, salvo poi togliersi le prime soddisfazioni in maniera direttamente proporzionale alla crescita dei giovani.

Uno su tutti Wiggins, un potenziale all-star che al fianco di James potrà imparare dal più forte e, contemporaneamente, vedersi sollevato da qualche scomoda responsabilità. Così come Irving, leader indiscusso di questa squadra sino a “The Decision 2.0”, potrà giocare maggiormente lontano dalla palla e far vedere quanto sia bravo come spot up shooter; oppure sarà LeBron a portare di meno la palla, sfruttando i blocchi dei compagni e, magari, giocando più vicino a canestro in avvicinamento in post basso, dove ha dimostrato di essere “unstoppable”, come direbbero oltreoceano? Ci sono allenatori che pagherebbero di tasca propria, probabilmente, per non dormire la notte ed essere nella situazione di Blatt. Condividere il pallone sarà la chiave di questa squadra, ma siamo sicuri che un coach di scuola europea saprà ispirarsi al modello San Antonio, per quanto quel sistema risulti essere forse unico nella storia della pallacanestro moderna. E se i Cavaliers dovessero avere anche solo la metà del carattere del Maccabi Tel-Aviv di questa stagione, attenzione perché avremmo di fronte una contender senza se e senza ma.

Ma allontaniamoci un secondo dalla sfera tecnico-tattica della decisione di LeBron James che, nella lettera inviata a Sport Illustrated, ha parlato soprattutto del lato emotivo della scelta. Non si tratta più di vincere uno, due o dieci anelli (ricorderete il “not one, not two, not three, not four” alla presentazione con gli Heat), ma di essere ancora una volta fonte d’ispirazione per la propria gente, in profonda crisi economica dal 2008. Perché LeBron James, probabilmente, si è accorto di essere un vero e proprio capitale in movimento non solo per se stesso, ma anche per chi sta intorno a lui. Forse stiamo idealizzando troppo quello che è soltanto un gioco, ma una Cleveland vincente in NBA può significare centinaia, se non migliaia di ragazzini che lasciano brutte compagnie, loschi affari e situazioni poco invidiabili per passare, magari, qualche pomeriggio in più al campetto del quartiere con gli amici, stimolati dalle imprese della squadra locale. Può rappresentare un business per centinaia di commercianti che, da quando se n’era andato LBJ, avevano visto ridotti i propri affari legati al merchandising dell’allora #23. E’ insomma un’occasione per ripartire e lasciarsi alle spalle uno dei periodi più bui nella storia dell’Ohio. Lo sport come diversivo di crescita sociale, in pratica il motivo più nobile con cui uno sportivo può mettersi al servizio della propria gente; ecco perché la scelta di LeBron James sarà comunque vincente, indipendentemente da quelli che saranno i risultati sul campo, e lo dice che uno negli ultimi anni di carriera è stato tutt’altro che suo estimatore, seppur abbia apprezzato particolarmente i suoi tentativi di diventare più umile e concreto. Tra la presa in giro nei confronti dell’influenzato Nowitzki, lo stesso che poi dominerà le Finals strappando l’anello a Miami con la sua Dallas, e il discorso dopo il primo titolo, quello del “sarò per sempre LeBron James from Akron, dal ghetto”, in mezzo c’è tutta la maturazione che uno sportivo può fare durante il proprio percorso.

Perché vincere anche solo una volta in casa, festeggiando faccia a faccia con la tua gente, con gli stessi che ti hanno visto crescere quando ancora non eri nessuno, non ha prezzo. Sembra già tutto apparecchiato per il prossimo spot NBA strappalacrime, peccato che tra il dire e il fare… ci siano in mezzo altre ventinove franchigie: e quando si tratta di LeBron James, nel bene o nel male, non c’è nulla di scontato.
Adesso più che mai in passato, il Prescelto avrà dalla sua non quattordici compagni pronti a remare nella sua direzione, ma un popolo intero che non vede l’ora di festeggiare un successo. Il suo popolo.

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Alessandro Lelli