Mondiali Brasile 2014 – L’Olanda sorprendente di van Gaal
Che Louis van Gaal sia uno dei tre “grandi vecchi” tra gli allenatori olandesi di oggi è fuor di dubbio (gli altri due sono Hiddink e Advocaat) e il suo palmarès parla per lui: ha vinto più o meno tutto quello che c’era da vincere tra Ajax, Barcellona e Bayern Monaco. Se proprio aveva un rimpianto, però, era la sua prima esperienza con la selezione oranje, terminata tragicamente nel 2002 dopo la clamorosa mancata qualificazione al Mondiale nippo-coreano.
Allora, l’Olanda era una signora squadra reduce dal quarto posto ai Mondiali francesi del 1998 e alla semifinale casalinga persa ai rigori con l’Italia di Zoff, Totti e Toldo nel 2000. Ciò nonostante, van Gaal non seppe portare quella generazione, che sostanzialmente faceva gruppo da sei anni, fino al primo Mondiale asiatico della storia, appuntamento al quale si presentarono invece il Portogallo di Rui Costa e Figo e la sorprendente Irlanda di Harte, Robbie Keane, Kilbane e Holland (ironia della sorte). Una grossa macchia nella carriera di Aloysius Paulus Maria van Gaal e una motivazione enorme per fare benissimo a quest’edizione del Campionato del Mondo nonostante la fase di transizione attraverso cui sta passando la Nazionale olandese nell’ultimo biennio, alle prese con un complesso ricambio generazionale che, alla fine, troppo traumatico non s’è rivelato.
In pochissimi avrebbero scommesso sul successo di quest’incarnazione 2014 dell’Arancia Meccanica: il talento c’era tutto ma è anche vero che era concentrato in avanti. Dietro ecco tanti ragazzi di belle speranze ma davvero pochissima esperienza internazionale.
In tutto ciò, ecco anche il cambio di modulo ordito dal santone Aloysius per poter ovviare all’assenza di Kevin Strootman: l’Olanda patria del 4-3-3 offensivo, fluido e di posizione ridisegnata con un apparentemente sparagnino 5-3-2 volto a coprire le magagne difensive della squadra. Apparentemente perché, oltre ad aver segnato 15 gol in 7 partite, dopo aver iniziato coi due terzini “puri” Jaanmat e Blind il CT ha pensato bene di inserire sulla fascia Dirk Kuyt, giocatore che s’è rivelato formidabile anche in copertura ma che certo non ha il suo principale punto di forza nelle qualità difensive (anche se ormai si può anche dire che probabilmente l’ex Liverpool potrebbe giocare persino in porta senza sfigurare). Van Gaal ha saputo plasmare con buon senso e una certa dose di furbizia i suoi guerrieri arancioni disponendoli in campo nel modo più adatto per far risaltare le caratteristiche dei suoi avanti in generale e Arjen Robben in particolare, non disdegnando anche qualche gioco di prestigio come l’inserimento di Krul contro la Costa Rica, de Guzmán mezz’ala, l’inedito Wijnaldum mediano sacrificatissimo e, appunto, il Kuyt terzino.
Una fluidità tattica che si poteva trovare solo nell’Olanda, anche se non rigidamente incardinata nel possesso palla e negli schemi offensivi come vorrebbe la tradizione, bensì in un’idea di gioco anche stavolta orientata al controllo della partita ma tramite contenimento e rapide verticalizzazioni. Niente “entrare in porta con la palla” ma un gioco più semplice, verticale e Robben-centrico.
Tre i simboli tra i giocatori: l’onnipresente Ron Vlaar, il calcisticamente evolutissimo Daley Blind e ovviamente l’inarrestabile Alien Robben, autentico deus ex machina della selezione oranje. Il rendimento di queste tre gemme ha saputo esaltare il gruppo olandese che, tra l’altro, ha potuto godere anche di quantità enormi di spirito di sacrificio (van Persie, uno Sneijder che non giocava con un raggio d’azione così basso dal 2006, Wijnaldum e l’ovvio Kuyt, come se ci fosse bisogno di sottolinearlo), che ha funzionato da “cemento” e solidificato tutta la struttura. Struttura che, è il caso di ribadirlo, era stata concepita nel precedente biennio con tutt’altre caratteristiche grazie alla presenza di Strootman, giocatore insostituibile proprio secondo lo stesso van Gaal.
Qualche parola in più la merita senz’altro il succitato Robben: reduce da una stagione che non è stata troppo faticosa grazie all’anticipo extraterrestre con cui il suo Bayern s’è preso la Bundesliga, il Ciclista di Groningen è arrivato all’appuntamento brasiliano molto meno stanco di quattro anni fa e s’è decisamente notato. Tre reti, lo zampino (decisivo) in praticamente tutte le gare dei suoi e una minaccia costante e continua per le difese avversarie, puntualmente in difficoltà quando si trattava di doverlo contenere in uno contro uno. Se si può fare un appunto al numero 11 olandese, questo non può che essere connesso coi fatali rigori contro l’Argentina: se avesse infatti tirato Arjen e non Vlaar il primo penalty forse in finale non sarebbe arrivata l’albiceleste (per quanto sia sempre doveroso ricordare che coi se e coi ma non si fa la storia).
In sostanza, però, quanto il cambiamento di modulo e stile ordito dall’allenatore ex Ajax e Bayern abbia giovato agli Oranje è esemplificato dalla prima partita con la Spagna, il roboante 5-1 dell’esordio olandese. Dopo le altre compagini hanno saputo prendere le misure e, di fatto, anche bloccare il sistema di van Gaal che, comunque, ha funzionato a meraviglia lo stesso fino alla semifinale persa ai rigori con l’Argentina.
Adesso il guru e l’artefice di questa squadra veleggerà placidamente fino al Manchester United, altro “ammalato” da salvare così com’era l’Olanda con le ossa rotte del dopo Euro2012. Improbabile che si riveda il 5-3-2 anche all’Old Trafford ma occhio ad Aloysius Paulus Maria van Gaal: la Nazionale oranje di Brasile 2014 non ha vinto ma è già entrata di diritto tra le compagini più efficaci e sorprendenti della storia del calcio mondiale.