E adesso tutti a menarla con l’abusata, abusatissima citazione di Gary Lineker, che, per carità di patria, evitiamo di riportare. Lo sport, troppo spesso, aborre l’esercizio mnemonico, favorendo oltremodo l’immediato sulla prospettiva di lungo periodo, con la tendenza a far prevalere il fenomeno più vicino.
Germania campione del mondo, con merito. Applausi e Cristo Redentor in giallo, rosso e nero, non il massimo del buon gusto, per un trionfo che, comunque, ha numerose ragioni per dirsi storico: dallo psicodramma del Mineirão, con il Brasile più peregrino che la memoria rammenti, al primo trionfo europeo in terra americana.
Solida, ben strutturata, questa Germania: parto caparbio di quel gran CT che è Joachim Löw, esempio di longevità alla guida d’una nazionale di questo calibro. Subentrato a Jürgen Klinsmann all’indomani di Germania 2006 (ne era il vice), il lavoro dell’ex attaccante del Friburgo dalla carriera non eccelsa, è stato ben coordinato con la programmazione teutonica, centrando il pieno rilancio d’un movimento che non s’è cullato sugli allori del Bayern di primo millennio.
Non sempre le vittorie sono proficue: Italia 2006, Milan 2007 e Inter 2010 dovrebbero esserne prova evidente. La Champions League 2001 conquistata dal Bayern di Effenberg e Kahn, dopo l’assurda sconfitta di due anni prima, fu l’occasione, per tutto il Fußball di Germania, di ripensarsi e intraprendere un lungo cammino. Perdendo spesso, sia chiaro: ma, nel calcio, più della vittoria, conta la competitività; il poter vincere più del vincere in sé.
Dietro al trionfo del Maracanã, stanno il secondo posto di Yokohama, la bruciante eliminazione ai gironi in Portogallo (2004), le sberle azzurre (Dortmund 2006, Varsavia 2012) e le varie “purghe” iberiche, in ambito europeo e planetario. Sconfitte dolorosissime che non hanno fiaccato la convinzione, tutta germanica, che il buon lavoro, alla lunga, paga sempre. Così come dietro all’impressionante Bayern del Triple 2013 (Bundesliga, Coppa di Germania, Champions League, cui si sono aggiunte Supercoppa Europea e Mondiale per club) stanno le sconfitte con Inter (2010) e Chelsea (2012), dopo un’assenza quasi decennale dall’ultimo atto della coppa dalle grandi orecchie.
Eccola qui, dunque, la Germania della rinata Bundesliga, bell’assemblaggio d’una pluralità etnica altrove da metabolizzare. Lo fa rivedendo i principi stessi del proprio credo, aggiornato mediante una meticolosa tessitura di tradizione e innovazione. La prima sta nel perseguimento della solidità, la chiameremmo affidabilità, se parlassimo di automobili, unita all’assenza del genio assoluto, del giocatore simbolo, schermo, quello da pallone d’oro reiterato (ancorché discusso); la seconda, in una felice apertura alla fantasia, al fraseggio, in un quadro di gioco che non ha ignorate le varie lezioni di Pep Guardiola, uno che, non a caso, è andato a sedersi sulla panchina del club che, da sempre, costituisce la spina dorsale delle Aquile.
Ecco, quindi, la coabitazione, per niente forzata, di Özil, Kroos, Müller (punta atipica e rarissimo esempio di “universale” d’attacco) e Klose, in alternativa al futuro eroe del Maracanã Götze, avanzando Möller a falso nueve: blasfemia per la gran parte dei tecnici italiani, strateghi spesso inclini a una nociva tendenza autoreferenziale. Ecco l’avanzamento in mediana (Danke herr Guardiola) di quell’eterno campione che è Lahm, per riportarlo, alla bisogna, sulla linea arretrata. Ecco che se in una finale mondiale si fa male un corazziere (Kramer, schierato per un Khedira infortunato nel riscaldamento), dalla panchina si alza Schürrle, non un incontrista. S’aggiunga quello che, forse, è al momento il miglior portiere del mondo e il gioco è, o sembra, fatto.
Applausi, applausi convinti per la squadra più forte che, una volta tanto, vince con merito. Ma attenzione: questa Germania non è imbattibile e il sapiente lavoro di sartoria tattica di Alejandro Sabella lo ha dimostrato a chi sappia leggere il campo. Come, del resto, lo avevano dimostrato un’eroica Algeria negli ottavi e una sfortunata Francia nei quarti (per non dire del pareggio col Ghana nel secondo incontro dei gironi): la dea Eupalla era stata, tutto sommato, benevola coi teutonici in dette occasioni, il cui ricordo è definitivamente naufragato tra i marosi delle lacrime brasiliane, martedì scorso.
Non è imbattibile, questa Germania: le squadre insuperabili non sembrano esistere più ed è sufficiente un calo di forma, un black-out mentale, per finire dagli altari alla polvere, specialmente in un calcio che ha, questa ci pare l’unica certezza desumibile dal torneo appena concluso, abdicato alle difese. Mondiale di grandi portieri o, meglio, di grandi parate, mondiale dai molti gol e d’innegabile divertimento, certo. Per difensori e, soprattutto, difese ben orchestrate sarà meglio sperare nel futuro.
In attesa delle prossime prove, plaudiamo una grande Germania, alla quale dovremmo ispirarci, restando fuori dagli slogan che, quattro anni or sono, recitavano supini la litania del dobbiamo fare come la Spagna. Ritornelli sentiti e risentiti, desueti già sul nascere, da telecronisti e commentatori usi all’esagitazione: avendo seguito il Mondiale sui canali tedeschi (64 partite in chiaro!) e avendo apprezzato la misura, la compostezza e anche i silenzi dei loro telecronisti (oltre alle belle ricostruzioni tecniche), ci sentiamo di suggerire che i primi a trarre spunto dai colleghi teutonici dovrebbero (dovremmo) essere proprio (noi) i giornalisti.
Complimenti Germania, sperando, però, che in altre parti del mondo, lacrime vere e non rituali, ancorché intense, come quelle spese per il pallone, possano cessare presto di scorrere.