Dal “Maracanaço” al “Mineiraço”: l’analisi di un altro Mondiale da incubo per i padroni di casa
Sono passati 64 anni (16 Luglio 1950) dalla disfatta più dolorosa tratteggiata di verde e oro, quel lontano “Maracanaço” che rivive nella mente dei brasiliani, trasmesso ai propri discendenti quasi fosse un avvenimento da esorcizzare; un’intera generazione segnata e un’altra, quella di oggi, pronta a prendersi la rivincita. Sembrava, insomma, il prologo perfetto di una storia lunga quasi tredici lustri e molto probabilmente un’occasione più unica che rara: vincere in casa, di fronte ai propri concittadini, uniti in un momento difficile per una nazione che fatica a progredire e che ogni giorno si scontra con grossi problemi sociali ed economici.
Invece, il Mondiale del 2014 verrà ricordato dai padroni di casa come il remake di una tragedia calcistica già vissuta sulla propria pelle, un disastro che al pari o forse anche più del “Maracanaço” segnerà la generazione di oggi. Eppure riavvolgendo il calendario di 365 giorni, troviamo gli stessi uomini alzare la Confederations Cup al Maracanã, fracassando la Spagna campione di tutto 3-0. Sic transit gloria mundi, un anno dopo il sogno è diventato un incubo, perché è lecito inciampare al penultimo gradino contro la Germania, non lo è, se ti chiami Brasile, capitombolare giù dalle scale prendendone 5 in 29 minuti, e 7 nell’arco dei 90.
La partita contro i tedeschi ha evidenziato nella maniera più feroce e dolorosa tutte le pecche di una squadra costruita con delle fondamenta molto fragili, tolte quelle, il castello di carta è venuto giù come mai era successo nella storia dei verdeoro: la squalifica di Thiago Silva e l’infortunio di Neymar hanno mostrato al mondo il reale valore di questo Brasile, una squadra di singoli male amalgamati, capace di rimanere a galla nel girone con qualche spinta arbitrale e di arrivare tra i primi quattro con tanta fortuna; chiedere a Mauricio Pinilla per conferma.
L’analisi dei nomi della rosa, inoltre, non può che portare tanta acqua al mulino dei suoi detrattori, soprattutto nel reparto offensivo, in cui Fred è riuscito a conquistarsi la palma d’argento tra i peggiori attaccanti della Seleçao in un Mondiale, siglando un solo gol in sei partite, con la terrificante media di una rete in 471 minuti; peggio di lui ha fatto solamente Alcindo, rimasto a secco nel Mondiale d’oltre Manica del 1966. Tolti, come detto, Neymar e Thiago Silva, gli altri hanno fallito tutti, dai più “acerbi” come Bernard e Oscar, ai più “anziani” come Dani Alves: il crollo è stato verticale.
Il fallimento più grande però è stata la guida, quel Felipe Scolari capace di portare il Brasile sulla vetta del Mondo nel 2002 e riprenderlo per trascinarlo con se negli abissi dodici anni più tardi: il tecnico portoghese è stato tradito dall’orgoglio di portare i propri fedelissimi, lasciando comodamente sul divano di casa Felipe Luís, giusto per citarne uno, e dalla superbia di considerare i medesimi uomini al pari della banda Löw; due peccati tutt’altro che veniali, pagati a carissimo prezzo da Scolari, le cui dimissioni, rassegnate stamane, non possono cancellare ciò che è già stato denominato “Mineiraço”, 64 anni dopo.