Non ce ne vorrà di certo, Filippo Inzaghi detto Pippo, se gli muoviamo una critica quando ancora neppure ha diretto una partita da allenatore del Milan; ma fatichiamo a capire il senso della sua conferenza stampa di presentazione. Non è colpa sua: colpa piuttosto della prassi giornalistica di dover per forza pubblicare qualcosa, anche banalità, purchessia. Segue breve excursus.
“Cercherò di essere me stesso, io sono Pippo Inzaghi con i miei pregi e difetti”: forse era un tentativo di chiarirci che non vuole essere confuso con suo fratello Simone. “Ho pensato alla squadra che ho, ho guardato i valori umani”: pensavo guardasse i valori contabili, o il grado di animalità sulla scala di Suárez. “Ci deve essere il rispetto per tutti e il rispetto della maglia che si indossa”: ah, davvero?
“Voglio riportare i tifosi a San Siro”: tutti sanno viceversa che il sogno di ogni allenatore è giocare sempre a porte chiuse. “Ecco quello che voglio dire ai nostri tifosi è che questa squadra lotterà perché chi non lotta non potrà giocare nel mio Milan”: il sogno di ogni tifoso, si sa, è di vedere una squadra di undici pappemolli. “Quando ho vinto ho sempre fatto parte di un gruppo di uomini veri con un allenatore”: solo perché non ha mai partecipato a una mostra canina.
Fin qui le solite parole: il solito vogliamo far bene, ho sempre sognato di giocare/allenare qui e simili. Le frasi stereotipate che riempiono sì la vita di tutti i giorni, ma che proprio per questo l’informazione potrebbe serenamente ignorare. Meno scontata una frase del genere di “Lavorerò sul rispetto delle regole e sul nutrirsi bene”: non tanto la prima parte, quanto la seconda. Non c’è bisogno di scomodare la biopolitica di Foucault per capire quanta e quale sia l’importanza di quel “bio” nello sport.
Il problema non è tanto dare l’esempio ai giovani, quanto essere atleti. Essere professionisti e professionali; essere un esempio non per altri, ma per onorare il proprio lavoro. Su questo, fiducia a SuperPippo: se ce la fa, tanto di cappello. Nella storia ci sono state squadre indisciplinate e vittoriose (una su tutte: la Lazio di Re Cecconi), ma il combinato disposto di professionalizzazione e telecamere non lascia più molto spazio per eventi del genere (anche i migliori scoppiano, Scolari docet).
Il passo più importante, poi, a modesto avviso di chi scrive è questo: “Penso che la cosa più importante sia ricreare il DNA del Milan. Il rispetto, il gruppo, la voglia di venire a Milanello col sorriso perché il lavoro che facciamo è stupendo”. Concetto un po’ meno banale di quello che può sembrare a una prima lettura. La seconda parte pare scontata, ma letta alla luce della prima cambia di significato.
Proviamo a rileggere: “ricreare il DNA del Milan”. L’accusa non è neanche tanto indiretta: sta a indicare come Allegri e poi (soprattutto?) Seedorf siano stati vissuti come una parentesi estranea, incapaci di venire a contatto con l’identità milanista.
Il lavoro “stupendo”, in quest’ottica, non sarebbe quello del calciatore: sarebbe quello del calciatore del Milan. Dell’esponente di una squadra titolatissima, inserito in un contesto iperprofessionale. Quello in cui anche l’alimentazione della persona ha un chiaro punto di analisi. Quello in cui il rispetto delle regole vale per i calciatori, e anche per gli allenatori (che non devono scontrarsi con la tradizione della squadra). È un fatto di… rigore.
Inzaghi viene da quasi tre lustri di Milan: sa come parlare, e a chi. A rigore, anche Seedorf condivideva una storia simile (ma più breve), eppure è riuscito a giocarsela. Esordiente l’uno, esordiente l’altro. Sereno l’uno, troppo innovatore l’altro. La seconda strada non è parsa pagare; Inzaghi è partito senza farsi troppo vedere (come stesse ancora sul filo del fuorigioco), ma un paio di messaggi trasversali li ha lanciati. Un paio di scatti, diciamo. Ai suoi giocatori il compito di trasformarli in gol, cioè in fatti e non parole. Sinceri auguri.