Mondiali 1986 – Argentina-Belgio e il triangolo con Dio

Argentina-Belgio, e la mente va subito a quella giornata di giugno in cui Maradona e compagni conquistano la finale. 2 a 0 perentorio, senza polemiche né drammi, dopo la mano de dios che aveva scandalizzato gli inglesi e il mondo intero, qualche giorno avanti.

Persino gli argentini, in verità, si sono risentiti: al momento del tocco di mano sopra la testa di Peter Shilton, il Pibe de oro non è ancora l’eroe dei due mondi calcistici, anzi. Parte dell’opinione pubblica argenta freme per bollarlo come una bufala, alla stregua d’un Cassano qualunque, tanto per riportare tutto a riferimenti nostrani e recenti.

Davanti ai 110.000 spettatori accorsi all’Azteca per ammirare il fenomeno del momento (un’epoca fortunatissima, quella, in cui Diego si trovava in copiosa compagnia), il figlio di Villa Fiorito non deluse. Al rientro in campo dopo un primo tempo intenso ma a reti inviolate, Burruchaga lo imbecca in area dopo una manciata di minuti: lui si porta a spasso due difensori e, con delizioso tocco da sotto di prima, beffa un incolpevole Pfaff in uscita.

Il Belgio prova a reagire, l’Argentina non molla e, dodici minuti più tardi, Dieguito concede un bis “in minore” del capolavoro offerto con l’Inghilterra: parte dai venti metri, si beve tre belgi e segna con un colpo mancino di malefica precisione. Diavoli rossi annientati, vendicando l’onta di quattro anni prima, quando, all’esordio di Spagna ’82, Erwin Vandenbergh aveva fatto capire ai campioni in carica che quello non sarebbe stato affatto il loro mondiale.

Ciò che rende unica quella semifinale a noi “malati” di memoria calcistica non è, però, la prestazione stellare (una fra le tante!) di uno dei più grandi giocatori di sempre, ma un fatto “laterale”, occorso oltre venti minuti dopo la doppietta che tuttora in Belgio viene rammentata con dolore.

Minuto 85: Carlos Bilardo richiama in panchina un esausto Burruchaga. Al suo posto, inserisce Ricardo Bochini, storico “10” dell’Independiente, che gli juventini più attempati ricordano per aver segnato il gol che privò la Vecchia Signora della Coppa Intercontinentale 1973, a Roma.

El Bocha, come lo chiamano i suoi tifosi, è calciatore dalla storia strana: idolo assoluto dei rossi di Avellaneda, con il club ha vinto quattro Libertadores (1973, 1974, 1975 e 1984) e svariati altri titoli domestici. Per contro, il rapporto con la Albiceleste è sempre stato problematico: oltre venti presenze non son poche, ma le mancate convocazioni mondiali nel 1978 e nel 1982 suonano come bocciature nette per la carriera internazionale d’un calciatore dal talento sopraffino. Dovessimo ricondurlo alle nostre latitudini, penseremmo a un Roberto Mancini, con qualche gol in meno: classe infinita, specie nello smarcare gli attaccanti, grandi successi, ma nessuna consacrazione azzurra.

I detrattori di Bochini non sono mai stati teneri con lui: “un nano, goffo, imperturbabile, senza colpo potente, né di testa, né carisma” scrive di lui Hugo Asch, sentenza oltremodo ingenerosa. Carisma, a dire il vero, ne ha da vendere, Ricardo e, forse, paga una certa timidezza, dote non sempre apprezzata in una terra di “smargiassi” come l’Argentina.

Con la palla al piede, in più, è divino e la storia lo ricorda come uno dei più grandi interpreti del gesto chiamato la pausa, soluzione calcistica per autentici palati fini, d’inusitata eleganza ed efficacia. Si tratta di quel momento d’attesa in cui un giocatore (solitamente un rifinitore) “sospende” il gioco, in attesa dell’inserimento del compagno da lanciare in rete. Può avvenire in movimento o da fermo: el Bocha è il massimo interprete di entrambe le opzioni. Difficile da cogliere, meno evidente e ben più pratica d’una veronica, d’una rabona: i suoi migliori interpreti sono stati (a nostra memoria) Pelé (si poteva dubitare?) e, in epoca vicina, Riquelme, benché il colpo faccia abbondantemente parte del bagaglio anche di Iniesta e Messi.

Torniamo a quel soleggiato pomeriggio di giugno: a voler assolutamente Bochini tra i convocati è stato il suo adoratore più illustre. Sì, proprio lui, Diego Maradona, cresciuto nell’ammirazione completa di quel raro esempio di sapienza pallonara. E, quando il risultato della semifinale è ormai al sicuro, Bilardo decide di regalare la soddisfazione mondiale anche alla mezzala dell’Independiente.

Esce Burruchaga, entra Bochini. Maradona si fa subito passare il cuoio da un compagno e la tocca per lui. “Maestro, ti stavamo aspettando!”, le parole dell’allievo, variamente tradotte nelle molte versioni di libri e interviste biografiche. Silenzioso, el Bocha prende la sfera e la restituisce al suo più importante ammiratore, entrando, di fatto benché da comparsa, nella storia del Mondiale. A fine partita, raccontando il “quadretto” alla stampa, ha il tempo di asserire, quasi senza sorridere: “Ho triangolato con dio”.

A gennaio, Bochini ha compiuto sessant’anni. Vive a Buenos Aires, in una casa abbastanza ordinaria, nonostante il quartiere benestante. Di certo, sabato avrà un tuffo al cuore, anche se, sin dal luglio 1986, ha più volte dichiarato di non sentire davvero “sua” quella coppa. Chissà se sorriderà, ripensando a quel triangolo divino.