Un orco che si chiama Luis Suárez

È ormai passata più di una settimana dal morso di Suárez a Giorgio Chiellini ma in Italia continuiamo a parlarne e a discuterne. Certo, l’interesse verso l’accaduto sta scemando ma anche gli illuminati media del nostro paese non mancano di rinfocolare la questione tutte le volte che ne capiti l’occasione, specialmente quando si assiste a entratacce e brutti falli lungo il corso di questi Mondiali (l’ultimo esempio è quello che ha coinvolto Matuidi e il povero Onazi) dove, manco a dirlo, i paragoni immediatamente sbandierati sono quelli del rosso di Marchisio, scritto in corsivo perché l’espressione si sta cristallizzando a tal punto che a breve diverrà quasi proverbiale, e del morso di Suárez.

Il buon Luis (si fa per dire, naturalmente) è passato quindi agli onori delle cronache come l’autore di un gesto che è difficilmente difendibile e senz’altro condannabile, per il quale l’uruguagio ha anche ricevuto una punizione decisamente notevole e puntuale e comunque non priva di criticità più o meno evidenti. Moltissimi hanno anche sottolineato più volte la recidività del soggetto, al terzo “assaggio” di avversario in carriera dopo Otman Bakkal in Olanda e Branislav Ivanović in Inghilterra come aggravante ulteriore per il centravanti del Liverpool, che al momento, è qualcosa di molto simile al “nemico pubblico numero uno”.

Quel che molti si sono chiesti è cosa passi per la mente del giocatore, peraltro abbondantemente in grado di prendersi i riflettori con reti e giocate sublimi, in quegli attimi: cosa può spingere un attaccante tra i migliori al mondo e lautamente pagato per fare gol addirittura a mordere un avversario.

Soprattutto da parte uruguaiana e principalmente dal presidente José Mujica sono arrivati vari attestati di sostegno a Luisito che hanno cercato di spiegare come il soggetto venga da una famiglia non proprio ricca, che è cresciuto per strada e che non ha ricevuto un’istruzione superiore. Per carità, tutto verissimo, ma viene spontaneo chiedersi come mai altri calciatori che pure hanno avuto un’infanzia simile (se non peggiore) rispetto a quella di Suárez non si siano mai nemmeno sognati di far qualcosa del genere. La verità è una sola: questa possibile spiegazione non regge.

Per provare a comprendere un po’ meglio quei secondi di follia che hanno obnubilato la mente del massimo goleador di tutti i tempi della Celeste forse val la pena spendere due parole proprio sulla storia di Luis Suárez e sulla sua personalità, ormai ben conoscibile a chiunque viva in Europa, visto che El Conejo risiede nel Vecchio Continente da ormai otto lunghi anni.

Luisito ai tempi del Groningen

Luis nasce calcisticamente nel Club Nacional di Montevideo, capitale della repubblica platense, dove gioca e si forma dai quattordici ai diciannove anni (2001-2006), facendosi notare anche lì per delle maniere non proprio da Galateo (è di quel periodo una bella testata all’arbitro nel più puro stile del primo Ibra). Vince il campionato alla prima stagione in assoluto da professionista, firmando già allora qualcosa come dieci gol in 27 presenze (prendere nota: non è mai sceso sotto la doppia cifra in carriera) ad appena diciott’anni. Sembra un predestinato, è un predestinato. E infatti coglie al volo la primissima opportunità per andare in Europa, la quali gli si presenta sotto forma di emissari olandesi del Groningen, club non proprio di prima fascia in Eredivisie ma che è celebre per l’ottimo settore giovanile (Arjen Robben ne è il prodotto più luminoso, attualmente) e che all’epoca s’era qualificato per i preliminari di Coppa Uefa. 800.000 euro e via, il ragazzo parte per l’Olanda dove, ad accoglierlo, c’è il connazionale Bruno Silva, uno di quei giocatori sudamericani mitologici che trovano quasi inspiegabilmente posto nei club mitteleuropei di terza e quarta fascia e ci restano per una carriera intera (e che l’Ajax preleverà a sua volta nel gennaio 2008 si dice proprio su consiglio dell’attaccante, all’epoca ajacide da un anno e mezzo). Silva avrà un ruolo centrare nel favorire l’inserimento del giovanissimo connazionale in squadra e nell’atmosfera dei Paesi Bassi.

A Groningen, dal canto suo, il buon Luisito si danna l’anima per imparare l’olandese il prima possibile e si guadagna subito il rispetto dell’ambiente per il suo impegno e il suo inappuntabile professionismo, intaccato solo da una certa propensione al cartellino giallo. Tra i Verdi Suárez firma 15 gol al suo primo anno in Eredivisie e si fa notare dall’Ajax, che vuole acquistarlo e offre tre milioni e mezzo al Groningen che, però, rifiuta: offerta troppo bassa. Il ventenne uruguagio, discretamente ambizioso nel caso non si fosse notato, strepita e urla, vuole andare ad Amsterdam talmente tanto che produce persino un esposto alla Federcalcio oranje per agevolare la trattativa (dettaglio fondamentale da non trascurare). La Federazione risponde picche e l’Ajax decide allora di fare la mossa giusta: tirar fuori sette milioni e mezzo di buone ragioni per portare il capriccioso e un po’ scorretto (sette cartellini gialli e un rosso al primo anno di Eredivisie) talento sudamericano all’AmsterdamArenA.

Una scena a cui tifosi dell’Ajax sono stati piuttosto abituati tra il 2007 e il 2010

La storia di Suárez come ajacide è arcinota: tre stagioni e mezza di amore continuo con tifosi e società conditi da grappoli e grappoli di gol e cartellini (111 in 159 partite, 42 gialli e un rosso); questi ultimi non impediscono alla non-proprio-tranquillissima curva biancorossa di identificarsi con il Coniglio diventato nel frattempo Pistolero che lo elegge quindi a proprio idolo. La dirigenza dell’Ajax si decide a cederlo solo nell’inverno del 2010, quando un Liverpool in caduta libera bussa alla porta del club olandese chiedendo notizie di quel talentuoso e un po’ folle attaccante uruguaiano che, nel frattempo, sta scontando una squalifica di sette partite per aver morso (sic!) Bakkal nella sfida col Psv Eindhoven del 20 novembre di quell’anno. Gli alti papaveri del club di Amsterdam non ci pensano due volte e, dopo lunghe trattative sul prezzo, cedono l’astro e il capitano della squadra alla compagine del Merseyside nel gennaio del 2011 al modico prezzo di quasi 27 milioni di euro, liberandosi sì del miglior elemento della compagine ma anche della difficile gestione del post squalifica e cautelandosi dalle possibili bizze future di colui che la stampa olandese ha già ribattezzato Cannibale, ansioso ormai da tempo di poter salpare verso club europei più prestigiosi ove proseguire la sua scalata al gotha del calcio mondiale.

Nel frattempo infatti ci sono stati anche i Mondiali del 2010, dove Luisito è stato uno dei trascinatori dell’Uruguay al quarto posto finale con tre gol e un assist ma anche con la “parata” realizzata nei quarti contro il Ghana. Quel gesto impedì ad Adiyiah di segnare un gol certo e portò al conseguente rigore poi sbagliato da Asamoah Gyan, che consentì alla Celeste di approdare in semifinale proprio ai rigori. Quel Mondiale è in un certo senso il Bignami di Luis Suárez, c’è tutto quel che può interessare su di lui: la famosa garra sudamericana, il suo talento, il suo senso del gol e la sua voglia di vincere con qualunque mezzo e a qualsiasi prezzo, la sua iper-competitività quasi compulsiva.

Ben consapevole di tutto ciò, sei mesi dopo i Mondiali, il Liverpool lo porta come detto ad Anfield. Qui Suárez passa i primi sei mesi ad ambientarsi per poi deflagrare in una costante progressione di rendimento quasi verticale, aiutata anche dalla Copa América vinta da protagonista uruguagio con tanto di titolo di Mvp, che lo ha portato a firmare 78 gol in 120 partite coi Reds negli ultimi tre anni (tra tutte le competizioni). Ma non ci sono solo le reti nel periodo da Scouser di Luis, ci sono anche le controversie: sul presunto razzismo ai danni di Patrice Evra prima e il celeberrimo morso (aridaje!) a Ivanović dopo, episodio che ha impedito al numero 7 dei Reds di disputare le prime partite di quest’ultima stagione proprio perché ancora squalificato dall’anno prima (dieci giornate di stop).

In questi giorni, oltre che della maxi sanzione da quattro mesi (e nove partite internazionali), si parla molto anche di un possibile futuro dell’uruguagio a Barcellona, alla corte di Messi, per quello che sarebbe probabilmente l’ultimo scalino nella famosa rincorsa alla vetta del calcio che Suárez ha incominciato ormai nove anni fa.

Perché alla fine è questo che importa a Luis: più ancora che segnare, El Pistolero vuole vincere, vincere, vincere e appagare la sua smodata ambizione. Professionista encomiabile per quanto riguarda il lavoro in allenamento e il rapporto che cerca di coltivare con compagni e tifosi, il suo atteggiamento con gli avversari è stato fin troppo spesso l’opposto e per ben tre volte è addirittura scivolato nell’attacco fisico diretto (senza contare provocazioni e insulti di cui non siamo a conoscenza, essendo trapelata solo la questione su Evra). Tanto amato da sostenitori e compagni quanto detestato da avversari e media, la storia di Luis Suárez da Salto, Uruguay pare districarsi continuamente su questi due binari. Il tutto per avvicinarsi sempre di più all’Olimpo dei calciatori migliori al mondo e per vedersi finalmente nel club dei vincenti.

Sempre alla ricerca di un palcoscenico più prestigioso e con più ampie possibilità di vittoria e di riconoscimento internazionale (da Montevideo ha colto al volo la prima chance europea, dopo un anno di Groningen voleva già fuggire all’Ajax, dopo due anni e mezzo di Liverpool strepitava per poter passare ad Arsenal o Real Madrid e adesso si fa bello sapendo che il Barça lo guarda…), nell’attesa di sollevare al cielo i trofei che contano, Suárez si impegna al massimo per vincere ogni gara, sia con mezzi leciti che con quelli impropri. Tutto è giustificato, tutto è giustificabile: basta che arrivi la vittoria (come insegna la “parata” del 2010). Può sembrare riduttivo ma conoscendo il personaggio, che è un incredibile competitivo-compulsivo, la voglia di ganar è l’unico, banale movente che porta l’orco Luis a compiere le scempiaggini che gli abbiamo visto fare negli ultimi anni, in una bulimia da risultato quasi infantile. Con la stessa disarmante facilità con cui infila pallonetti da 40 metri, se la sua squadra è sotto nel punteggio, El Conejo è pronto ad affondare i suoi dentoni nella tua spalla, come un bambino che non è in alcun modo capace di perdere, che non riesce ad accettarne nemmeno l’eventualità. E quindi prova a fare il “furbo”, ricorrendo a espedienti che neanche il miglior Gascoigne avrebbe escogitato.

Vista così, più che rabbia, tutta la situazione probabilmente fa pena. Un bambinone di 27 anni e mezzo che, nonostante viva in un ambiente sportivo da tre lustri, ancora non è capace di accettare i verdetti del campo oltre una certa soglia (e dire che quest’anno, in Premier, aveva anche rigato dritto!). Gioca meravigliosamente a calcio, certo; non è il male assoluto, anzi. Però l’idea che uno dei migliori cinque attaccanti del mondo si riduca a mezzucci e tentativi di lesioni quasi perseguibili penalmente per vincere è desolante.

Francamente, se mi chiedessero qual è l’aspetto più triste dell’intera vicenda, risponderei senz’altro pensando proprio all’incredibile talento di Luis. Perché essere ossessionato dal voler vincere al punto da mordere gli avversari quando ti chiami Luis Suárez, hai quei piedi e sei capace di giocare in quella maniera così sublime… Beh…

In fondo è semplicemente un po’ patetico.

PS: il ragazzo, oltre non essere cattivo ma solo disperatamente ossessionato dal risultato, è anche incredibilmente sveglio e sorprendentemente auto-ironico, come dimostra questo spot uruguaiano:

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Giorgio Crico