Immaginate un paesaggio roccioso, costiero, con un pigro mare Adriatico che bagna mollemente la battigia. Siamo al tramonto e una luce rossa illumina la spiaggia in un non precisato punto della costa ex jugoslava, al confine tra Croazia e Bosnia Erzegovina.
Il primo ragazzo è bosniaco, il secondo croato. Entrambi sanno che i Mondiali dei loro beniamini sono già finiti. Mondiali che, manco a farlo apposta, avevano contrapposto le due Nazionali balcaniche contro le più grandi corazzate del calcio sudamericano (Argentina e Brasile) e la coppia di selezioni africane più ricche di tradizione e storia (Camerun e Nigeria). Gli ottavi erano già in partenza una missione difficile ma, adesso che sono sfuggiti per davvero, tanto ai nostri due piccoli tifosi sulla spiaggia quanto ai loro connazionali calciatori, devono affollare la mente tanti piccoli pensieri che suggeriscono circostanze per cui la storia avrebbe potuto prendere un altro corso.
Ah, se Pletikosa si fosse tuffato prima su quel sinistro di Neymar… Ah, se l’arbitro avesse convalidato il gol di Džeko contro la Nigeria… Ah, se contro il Messico avessimo giocato come contro il Camerun… Ah, se Ibišević avesse giocato dall’inizio contro Argentina e Nigeria…
Però non è andata così e le rappresentanti di quella che non è una Nazione ma, sfruttando un luogo comune per una volta vero, uno stato d’animo, tornano a casa dopo sole tre partite giocate sul suolo verdeoro.
Peccato perché, a modo loro e diversamente l’una dall’altra, erano due squadre affascinanti, intriganti, come solo quelle balcaniche e slave sanno essere. La Bosnia aveva il fascino dell’esordiente, della Cenerentola annunciata, ma non priva di talenti notevoli: la classica potenziale sorpresa sulla quale non hai tante speranze ma che, se per caso vince e convince, in fondo un po’ te lo aspettavi. La Croazia aveva invece il magnetismo tipico delle compagini con un centrocampo ad alta caratura tecnica e, in generale, delle Nazionali ben strutturate, con campioni affermati, talenti notevoli e vecchi lupi di mare eternamente sottovalutati pronti al canto del cigno. Due bellezze diverse e ugualmente struggenti. Balcaniche appunto. Una più avvezza a un certo tipo di eventi e celebre per essere sempre e comunque ostica, l’altra pronta a ruggire per la prima volta.
La malinconia è un sentimento raffinato e d’élite intellettuale di cui i popoli che abitano tra Slovenia e Macedonia sono profondamente intrisi e che anche i nostri due giovani tifosi sulla spiaggia conoscono bene, istintivamente. Perché ce l’hanno nel sangue.
Quello stesso sangue che ribolle nelle loro vene per la delusione. Quello stesso sangue che però, quasi come una sentenza (da quelle parti si tende spesso anche al fatalismo), lascia presagire ai nostri eroi in ogni cellula del loro corpo che i loro beniamini torneranno presto a dire la loro.
Perché lo stato d’animo balcanico non muore neanche se lo ammazzano.