I miei Balcani tristi: Croazia e Bosnia Erzegovina

Immaginate un paesaggio roccioso, costiero, con un pigro mare Adriatico che bagna mollemente la battigia. Siamo al tramonto e una luce rossa illumina la spiaggia in un non precisato punto della costa ex jugoslava, al confine tra Croazia e Bosnia Erzegovina.

In sottofondo un vecchio mangianastri rimanda, graffiato e quasi corroso, il suono di una delle struggenti melodie di Goran Bregović, noto musicista bosniaco specializzato in colonne sonore. Sulla spiaggia due ragazzini guardano verso il mare, all’orizzonte, là dove tramonta il sole. Uno indossa una maglia blu scuro, nuova fiammante, con un numero 1o sulla schiena e il nome Misimović sotto il collo, l’altro porta invece una casacca a scacchi bianchi e rossi, troppo grande per lui, come solo le magliette da calcio anni ’90 sapevano essere. È piuttosto vecchia, ma è tenuta benissimo, quasi come fosse una reliquia, quasi come fosse stata comprata pochi giorni prima e sul retro anche questa reca un nome e un numero: Šuker, 9.

Il primo ragazzo è bosniaco, il secondo croato. Entrambi sanno che i Mondiali dei loro beniamini sono già finiti. Mondiali che, manco a farlo apposta, avevano contrapposto le due Nazionali balcaniche contro le più grandi corazzate del calcio sudamericano (Argentina e Brasile) e la coppia di selezioni africane più ricche di tradizione e storia (Camerun e Nigeria). Gli ottavi erano già in partenza una missione difficile ma, adesso che sono sfuggiti per davvero, tanto ai nostri due piccoli tifosi sulla spiaggia quanto ai loro connazionali calciatori, devono affollare la mente tanti piccoli pensieri che suggeriscono circostanze per cui la storia avrebbe potuto prendere un altro corso.

Ah, se Pletikosa si fosse tuffato prima su quel sinistro di Neymar… Ah, se l’arbitro avesse convalidato il gol di Džeko contro la Nigeria… Ah, se contro il Messico avessimo giocato come contro il Camerun… Ah, se Ibišević avesse giocato dall’inizio contro Argentina e Nigeria…

Però non è andata così e le rappresentanti di quella che non è una Nazione ma, sfruttando un luogo comune per una volta vero, uno stato d’animo, tornano a casa dopo sole tre partite giocate sul suolo verdeoro.

Se la Bosnia era un’autentica scommessa e poteva contare su pochi uomini di classe superiore come Pjanić, lo stesso Džeko e il succitato Ibišević (e, non a caso, tre gol su quattro totali portano la loro firma), la Croazia appariva invece decisamente più solida ancorché sorteggiata in un girone veramente duro (Brasile, Messico e Camerun: non certo un raggruppamento da deboli di cuore nonostante i Leoni Indomabili non fossero certo nella loro incarnazione migliore). I ragazzi di Sušić hanno probabilmente pagato caro il dazio della scarsa esperienza internazionale e della scelta del loro allenatore di non scendere mai in campo con la formazione tipo a due punte con la quale aveva strappato il pass per il Brasile nelle qualificazioni. Gli uomini di Kovač, dal canto loro, non sono riusciti nel colpaccio all’esordio (nonostante a un tratto sembrasse davvero possibile lo sgambetto ai padroni di casa, sono poi stati abbattuti da Neymar e Nishimura) e poi si sono squagliati sotto i colpi di un Messico indiavolato, che voleva gli ottavi con una caparbietà che solo i latinoamericani sanno avere.

Peccato perché, a modo loro e diversamente l’una dall’altra, erano due squadre affascinanti, intriganti, come solo quelle balcaniche e slave sanno essere. La Bosnia aveva il fascino dell’esordiente, della Cenerentola annunciata, ma non priva di talenti notevoli: la classica potenziale sorpresa sulla quale non hai tante speranze ma che, se per caso vince e convince, in fondo un po’ te lo aspettavi. La Croazia aveva invece il magnetismo tipico delle compagini con un centrocampo ad alta caratura tecnica e, in generale, delle Nazionali ben strutturate, con campioni affermati, talenti notevoli e vecchi lupi di mare eternamente sottovalutati pronti al canto del cigno. Due bellezze diverse e ugualmente struggenti. Balcaniche appunto. Una più avvezza a un certo tipo di eventi e celebre per essere sempre e comunque ostica, l’altra pronta a ruggire per la prima volta.

Non ce l’hanno fatta e i Mondiali perdono qualcosa. Perdono la chance di poter ammirare calciatori che sanno passare dalla più bieca latitanza agonistica, che talvolta li trasforma in ectoplasmi sul rettangolo verde, a compiere giocate sublimi e inimmaginabili, quasi autocompiaciute e talvolta fini a sé stesse, nello spazio di qualche secondo (Savićević insegna, non per niente era montenegrino). Il Brasile perde degli uomini e degli atleti abitati dal genio slavo, quello che ti fa ciondolare indolente in mezzo al campo un secondo prima ed esultare per un pallonetto da venti metri che si infila nel sette un secondo dopo, legando indissolubilmente la rara bellezza di un gesto tecnico perfetto a un’apatia connaturata e inevitabile. E tutto ciò è triste, ma soprattutto malinconico.

La malinconia è un sentimento raffinato e d’élite intellettuale di cui i popoli che abitano tra Slovenia e Macedonia sono profondamente intrisi e che anche i nostri due giovani tifosi sulla spiaggia conoscono bene, istintivamente. Perché ce l’hanno nel sangue.

Quello stesso sangue che ribolle nelle loro vene per la delusione. Quello stesso sangue che però, quasi come una sentenza (da quelle parti si tende spesso anche al fatalismo), lascia presagire ai nostri eroi in ogni cellula del loro corpo che i loro beniamini torneranno presto a dire la loro.

Perché lo stato d’animo balcanico non muore neanche se lo ammazzano.