Non è colpa mia, casomai è colpa sua
Nella serata di ieri, 24 giugno, sono successe due cose rilevanti, legate tra loro: eliminazione dell’Italia alla fase a gironi del Mondiale; corsa allo scarico di responsabilità immediato da parte dei (non tutti) protagonisti. Soltanto una di queste due cose, però, è stata una sorpresa: l’eliminazione dopo appena 3 partite. L’altra, invece, era prevedibile. Anzi, quasi scontata.
Nel post-partita della sfida con l’Uruguay, ascoltando le interviste a giocatori, allenatore e dirigenti, la prima cosa a cui ho pensato è stata il vecchio adagio su chi abbandona la nave il più in fretta possibile, prima che stia affondando. Qui la nave era appena affondata, o meglio, stava lì a mezz’acqua, e scivolava giù lentamente. E si è assistito a un prodigarsi davvero commovente per “salvarsi il culo” (mi scuso per l’espressione) e mandare avanti qualcun altro. Tutto molto italiano, non mi sorprende.
Il tempismo di Prandelli nel “dichiarare bancarotta” in modo così plateale (discorso molto lungo, molto deciso ma, nei contenuti, praticamente nullo – ha solo ripetuto “il progetto tecnico è fallito ed è di mia responsabilità”) non mi ha per nulla impressionato. Massimo rispetto per la decisione di fare un passo indietro, non è da tutti, ma il modo poteva essere diverso. Poteva essere un’onesta ammissione degli errori e non un discorso quasi vittimistico e permaloso, con sottolineature sul rinnovo del contratto, sul fatto che lui paghi le tasse (cosa c’entra?) e su chi lo criticava già prima del torneo. Sembrava di sentire qualcuno che dice qualcosa tipo “Ma tanto voi mi volete male comunque, quindi me ne vado perché mi criticate”. Nulla mi vieta di avere la pessima sensazione che, a prescindere dal risultato di questi Mondiali, Prandelli si sarebbe dimesso in ogni caso. Avesse vinto sarebbe passato per l’eroe incompreso, invece ha perso e sembra voler passare per la vittima.
Vicino a lui Abete, infausto dirigente del calcio italiano, sempre pronto a grandi frasi e paroloni (all’interno dei confini nazionali), ma di fatto inesistente per tutto il resto del mondo del pallone. Perfetto rappresentante massimo della Federazione Italiana Giuoco Calcio, ha seguito Prandelli in conferenza stampa annunciando le sue dimissioni irrevocabili (vivaddio!) e volendo, però, sottolineare che “in ogni caso non credo di avere responsabilità per l’esito di questo Mondiale”. No, infatti, e perché mai? Sei solo a capo di tutta la baracca. Andarsene non come gesto sincero, ma più come una ripicca, come un far pesare qualcosa a qualcuno, sempre.
E arriviamo ai giocatori. Che vanno in campo e, alla fine, sono quelli che possono decidere l’esito delle partite. Dopo la vittoria contro l’Inghilterra si sentivano elogi sperticati: c’è lo spirito del 2006, questa squadra può arrivare in fondo. Tolto che il 2-1 era arrivato al termine di una gara a ritmi da dopolavoro (e che gli inglesi si sono poi rivelati squadra davvero mediocre), tanto è bastato per mettere in moto l’autobus della retorica e dell’entusiasmo. E tutti sono saliti di corsa, non c’era posto nemmeno sul tetto. Poi il crollo. E l’eliminazione. E senti Buffon (capitano) che chiede più rispetto per i senatori – che “sono sempre loro a tirare la carretta, serve gente che faccia, non che forse farà”, a cui fa eco De Rossi. Contro i “personaggi”, contro i giovani, contro i loro stessi compagni di squadra.
Un elenco di 6-7 nomi, i grandi vecchi, quelli esperti, “gli unici a incarnare lo spirito giusto” (cit. De Rossi). L’elenco dei buoni, dei giusti. Una ridicola auto-celebrazione nel momento più basso del calcio, di cui loro stessi fanno parte. L’elenco di chi si sente migliore dei suoi compagni e, proprio in virtù di questo, per una strana proprietà transitiva, si sente anche meno colpevole del fallimento. Insomma, l’ultimo grande paradosso di un sistema-calcio ormai incartato definitivamente su se stesso. Parafrasando Buffon, ok che qualcuno ‘non ha fatto’, ma voi altri 6-7 martiri che dite di “fare”, invece? Non eravate in campo pure voi?
Ma d’altronde, in un Paese in cui, alla vigilia della sfida con l’Uruguay, la corsa alle scusanti era:
- se fa troppo caldo, sarà un grosso problema (tutti),
- se piove, sarà un problema (Massimo Mauro, Sky Sport),
- si gioca con la luce del giorno, è un problema, sarebbe stato meglio di sera con i riflettori (Gianluca Vialli, Sky Sport),
chiunque rifiuterebbe le critiche se venisse accudito nella bambagia in questo modo, per tutto il resto del tempo.
E alla fine Prandelli lo capisco. Ci ha provato e sperava onestamente di fare meglio. Ha sbagliato certe scelte tecnico-tattiche, vero, ma forse avrebbe dovuto dare più peso alla famosa frase di Marcello Lippi: “La Nazionale è il vero specchio del movimento calcistico di un Paese”.
Ecco, appunto. Una Nazionale spaccata tra senatori permalosi e nuove leve con poco carattere, incensata da retorica e populismo (che tanto piace ai tifosi occasionali con bandiere storte appese ai balconi ogni 4 anni); con calciatori sempre pronti a godere di attenzioni e ammirazione al primo post sui social network (Balotelli come Buffon, allo stesso modo); una Nazionale “finta”, così come il valore e la qualità del calcio italiano. Che finché si vince, dobbiamo abbracciarci tutti insieme e sentirci tutti uniti. Ma, dietro la schiena, ognuno sta facendo i gestacci al vicino. E la vera onestà sarebbe ammetterlo fin dall’inizio, a prescindere dal risultato.