“Eccomi qua / sono venuto a vedere / lo strano effetto che fa / la mia faccia nei vostri occhi /e quanta gente ci sta”. Così, per dirla con De Gregori, avranno pensato i campioni delle 32 nazionali partecipanti ai Mondiali, una volta messo piede sul suolo brasiliano. Ma a 90 minuti dalla prima scrematura di classifica, per molti nomi illustri si sono già riaperte le porte d’imbarco: “prego, s’accomodi, Mr. Dzeko”, “bentornato Sig. Cristiano Ronaldo”, “felici di riaverla con noi, Dott. Capello”. Certo, per alcuni dei summenzionati il verdetto non è ancora definitivo, ma se il buongiorno si vede dal mattino, nelle ultime due albe di gioco, l’acqua è scesa a secchiate.
Di sicuro, le prime ad andarsene sono state Spagna e Inghilterra, le Nazionali dei due principali campionati europei, quelli che raccolgono il maggior numero di campioni globali. Le due rappresentative sono capitolate sulla competizione mondiale, incapaci di reggere l’urto di Olanda e Cile in un caso, Italia e Uruguay nell’altro. Tanti saluti allora a Iniesta e Xavi, la coppia di centrocampisti che quattro anni fa aveva incantato il mondo e oggi ci saluta con malinconico “¡Adios Amigos!”. E un “mandaci una cartolina, una ridente foto di te” va anche a Rooney &Co.: neanche il tempo di scandire “Eh, òh, let’s go!” per inaugurare l’esotica avventura e già si è pronti per tornare al patrio “fish and chips”.
Evidentemente c’è una differenza tra il pur emozionante refrain della Champions e l’insieme orchestrale di musiche dal mondo che risuonano ogni quattro anni. Qui in Brasile non conta solo il prato pettinato di fresco o il calcio giocato alla temperatura perfetta di 23 gradi all’ombra. Il calcio ritrova una dimensione assoluta, prescinde dall’umidità percepita e conta solo per quel che si mostra in campo. Non c’è sponda per lamentarsi come di fronte ad una nevicata ad Istanbul, al Mondiale funziona come quando si va in Bolivia a patire l’altura, in fase di qualificazione. Sarà per questo che Colombia, Messico, Cile e Costa Rica hanno potuto mostrare le caratteristiche fisiognomiche del proprio calcio, fatto della stessa materia di cui è fatto il pallone, quando si gioca da ragazzi per strada. Allo stesso modo, con naturale immedesimazione, l’Algeria ha saputo compiere l’impresa di essere la prima nazionale africana ad andare a segno quattro volte in una partita, mettendo a rischio nel proprio girone la qualificazione della Russia. E se la Costa d’Avorio intravede gli ottavi, va detto che non hanno sfigurato l’organizzato Iran, con possibilità ancora aperte di qualificazione o persino la combattiva e caparbia Australia, seppur precocemente eliminata.
In difetto di capacità adattative, costretti in meccanismi di gioco speculativi e scarsamente inclini al tropicalismo esistenziale, sono stati i campioni europei più degli altri a patire il confronto con un mondo diverso, dove conta fino a un certo punto il pedigree ma conta soprattutto quanto sai stare al mondo – o in questo caso, in campo – uscendo dai resort per eletti del pallone, dove abitualmente coltivano le proprie carriere le stelle delle serate feriali di Champions. A resistere, i tenaci olandesi, che per natura atavica hanno imparato a combattere l’ambiente – altrimenti non si sarebbero chiamati Paesi Bassi – e i coriacei tedeschi, volitivi per costituzione fisica e caratteriale.
Ma per chi ha saputo resistere, è giunto il momento di cambiare spirito. A partire da stasera. Con la speranza che al check-in dei campioni in partenza, non si aggiungano Balotelli e Pirlo, ma siano piuttosto Cavani e Suarez – europei d’adozione – a riprendere la valigia, e a far propria la chiosa di De Gregori:
“Eccoci qua / siamo venuti per poco / perché per poco si va / e il sipario è calato già”.