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Non abbiamo fatto una grandissima figura. Va bene, era “soltanto un’amichevole”, ma diamine, il prestigio dove lo mettiamo? Siamo l’Italia. Un secondo, però: qualcuno potrebbe appigliarsi alla tradizione, quella che vuole gli azzurri fare sempre grossolani e clamorosi flop nelle amichevoli pre-appuntamenti importanti, e dire “va bene così, è del tutto normale”. Col Lussemburgo così è andata, d’altronde: era l’ultima amichevole prima del mondiale, e ciò che matura è un 1-1 beffardo, più che beffardo.

Certamente, siamo stati anche sfortunati; la doppia traversa firmata Balotelli-Candreva, le tante azioni non concretizzate, il pallonetto-beffa di Chanot a cinque dal 90′, ma tant’è: non siamo stati precisi, ne abbiamo pagato le conseguenze. Probabilmente, anche perché Prandelli ha osato: De Rossi vertice basso, Pirlo e Verratti insieme col rischio che si calpestassero i piedi, Balotelli unica punta. Stava provando questo schema da un bel po’ in allenamento il nostro ct, aveva intenzione di mettere da parte quel 4-4-2 oramai trito e ritrito, soprattutto conosciuto e riconosciuto da chiunque. Beh, risultato a parte, la sensazione è che questo schema possa nonostante tutto funzionare. Il filtro di De Rossi è una garanzia, Candreva può far male sull’esterno, Marchisio sa come infilarsi tra le maglie avversarie. Abbiamo preso gol per una distrazione su calcio piazzato, e in fin dei conti la cosa ci può tornare utile perché ci fa capire dove perfezionarci. Ciò che può preoccupare, invece, è la poca incisività del reparto offensivo. Balo non ha saputo incidere, gli ingressi di Cassano, Insigne e Cerci non hanno dato la spinta necessaria alla squadra per conseguire la vittoria. Immobile? Non ha giocato, ma lui dovrà saper fare la differenza: è l’unico attaccante di movimento capace di fare (tanti) gol, va spremuto come un limone. In Brasile, se vogliamo avere qualche speranza di arrivare fino in fondo, dobbiamo prendere consapevolezza che prescindiamo dalla fame del bomber del Borussia Dortmund. Magari, un po’ anche di quella di Balotelli, che se riuscisse a scrollarsi di dosso un po’ di spocchia potrebbe diventare devastante. Testa bassa, polmoni, grinta, cuore e potenza: questo ci vuole in Brasile.

Già: il Brasile, terra di passione e sofferenza. Per un mese, patria del calcio mondiale: là il pallone è visto come ragione di vita, come accade praticamente in tutto il Sudamerica. È diverso, “là”, in confronto a “qua”: il calcio, in Europa, è sì, passione immensa, e sì, una valvola di sfogo, un modo anche per sfogare dolori e frustrazioni, ma tutto sommato è (diventato, negli anni) uno show, uno spettacolo, reso così dall’avvento delle pay-tv, di internet, dei milioni che da questa parte del mondo girano di più che oltre oceano. Là, in Sudamerica, tutto è più popolare: i campioni nascono per le strade, indossano scarpette comprate al mercato, e il calcio europeo… lo sognano. I ragazzini diventano calciatori palleggiando tra le macchine, sperano di trovare una squadra, esplodere, indossare la maglia della nazionale. Quello spirito patriottico dovremmo imparare ad avere noi. Che italiani lo siamo… per un po’, solo ogni paio di anni, quando c’è da giocarsi Europei e Mondiali. Le altre volte… “ah, giocava l’Italia?”

Da qui, la speranza: per un mese, almeno per questo mese, via le discriminazioni. A farsi benedire l’Ital-Juve, il codice etico, le esclusioni eccellenti, e tutto quanto il resto. Questa nazionale seguiamola e tifiamola veramente. Il pareggio con il Lussemburgo ci preoccupi davvero. Il Brasile è lontano, e loro saranno pure ultramilionari pagati, serviti e riveriti. Ma rappresenteranno noi, amanti del pallone, e noi vogliamo dimostrare che il calcio è roba che ci appartiene. Quest’Italia deve funzionare: deve saper vincere, e noi dobbiamo saper tifare. Tornare dal Brasile vittoriosi? Difficile, quasi impossibile. Ma se non sbaglio, lo dicevamo anche otto anni fa, e tutti ricordiamo com’è andata a finire.