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Mondiali: proprio come 24 anni fa

Per quanto la scelta di Prandelli mi faccia incazzare, sono nato troppo tardi per associare il nome Rossi alla conquista di una Coppa del Mondo. Nell’82 avevo tre anni: forse avrei degnato di un pugnetto chiuso e un sorrisone quella nazionale se il numero 9 si fosse chiamato Mazinga Z, ma la realtà è che di quella notte ricordo confusamente soltanto il frastuono di un viavai di pazzi nel cuore di Milano.

Dell’86, invece, sopravvissero solo due cose: la prima fu uno schiocco. Fortissimo, una frustata nel buio di un arroventato giugno messinese. Erano le due manone di mio padre che si chiudevano come un tuono facendomi sobbalzare mentre Sirakov correva ad abbracciare i compagni durante Italia-Bulgaria. La seconda un romantico tango: quello ballato da un muscoloso nanetto tutto vestito di blu. Danzava, volteggiava, e sotto i suoi passi in punta di piedi cadevano al suolo giocatori inglesi, uno dopo l’altro. Come se quell’audace ballerino tracimante ricci neri fosse un piccolo tornado abbattutosi con violenza devastante su tutta l’Inghilterra.

Quel tango, così passionale, così terribile e magico e nobile e volgare, mi fece intendere che dietro quel gioco ci fosse molto più di un gioco. Nella guerra di sguardi fra quel funambolo riccioluto e gli arcigni signori biondi ancora stesi a terra a cercare di capire “Ma da quale stramaledetto spiraglio mi è fuggito via?”… seppi finalmente che quel prato era un campo di destini. E che avrei voluto calcarlo anch’io con tutte le mie forze.

Così, nel 1990, ero pronto a far sul serio. Conoscevo a memoria i giocatori di quella nazionale straordinaria (forse la più forte di sempre), ma ne amavo due su tutti. Il primo si chiamava Walter, e quando hai una doppiavù nel nome e per di più sei un portiere fenomenale, un bimbo di 11 anni ci può pure perdere la testa. Il secondo lo chiamavano tutti Totò, ma non ne avevano il diritto come lo avevo io, che la sua maglia del Messina l’avevo adorata più di tutti e con tutte le mie forze. Ma si giocava un mondiale e non mi pesava far finta di nulla: che anche gli altri scoprissero quale magia ricopriva i piedi di Schillaci. Che lo facessero pure, anche se ero l’unico dei miei amici che quel trucco lo conosceva già.

Davanti alle mie lacrime quando il mio eroe Walter perdeva l’imbattibilità, consegnandoci all’Argentina di quel ballerino che adesso era arruolato nei cattivi, ho stipato 20 anni di storie. L’unghia dell’alluce che sanguina mentre Benarrivo va giù in area, dopo che un filotto di Baggio fra due paia di gambe nigeriane aveva innescato la mia corsa in corridoio, terminata sulla scarpiera nel modo più goffo che si possa immaginare. La bile tracannata a litri dopo i cinque gol regolari annullati al Trap delle madonne d’acqua e delle bottigliette gialle scaraventate con infinita giustizia sui maroni degli addetti coreani. L’abbraccio con gli amici, una follia di pura gioia, mentre Del Piero spiaccicava la Germania sotto i suoi tacchetti.

I Mondiali scandiscono le nostre vite come un lento e inesorabile metronomo. ’94, ’98, 2002, 2006… La mia voce, i miei sogni, l’idea che avevo del mondo e di me stesso. Tutto veniva portato da una parte all’altra da quella lancetta, che come un’onda dispettosa cancellava istanti lunghi quattro anni, restituendo una battigia d’oro levigato.

E allora, mi dico: che importa se le scelte di Prandelli continuano a suonarmi ripugnanti? Cosa importa se ci portiamo una sola punta di movimento, che oltretutto ha la spocchia di chiamarsi Immobile? Se il codice etico applicato a convenienza ha rotto le palle a tutti, se Buffon smanaccia a caso da tre anni, se l’unica skill di Balotelli è quella di essere l’anagramma di uno dei più grandi attaccanti mai prodotti dal vivaio italiano. E cosa importa se stiamo facendo di tutto per perdere in partenza questo mondiale, così come ci offrimmo al sacrificio quattro anni fa, ripetendo con Lippi gli stessi errori non ancora compresi del Bearzot versione messicana.

Niente, importa. Perché lo schiocco del metronomo sta arrivando un’altra volta a infliggermi gioia o sofferenza, a sorprendermi mentre tento inutilmente di convincermi che “In fondo che mi frega, ci sono cose più importanti…”, a ritrovarmi un bambino che semplicemente vuole vedere i propri colori brillare più di tutti gli altri, trafitto da un raggio di sole nell’illusione di essere nato, per una volta tanto, nel posto migliore del mondo.

Proprio come 24 anni fa.