Davide batte Golia, anno 2014
Se mi avessero detto, a inizio stagione, che in un ipotetico e altrettando anonimo weekend di maggio avrei assistito all’impresa dell’Atletico Madrid, al Camp Nou, il cui pareggio avrebbe permesso ai Colchoneros di aggiudicarsi il decimo titolo nazionale, il tutto condito con una finale di Champions ancora da giocare… beh probabilmente mi sarei fatto una gustosa risata. Un’impresa titanica, con i capitolini guidati da uno straordinario Diego Simeone, vero mattatore di una squadra per il quale ho veramente finito gli aggettivi a mia conoscenza; anche il come è arrivato il successo finale, in effetti, non è stato banale. Prima quel grido di sofferenza e le lacrime di Diego Costa, uno a cui devi solo dare la palla giusta al momento giusto, poi ci pensa lui: poi quello scontro di gioco fortuito, in cui Arda Turan è rimasto a terra dolorante, anche lui costretto a dare forfait. Infine il gol di Sanchez, un capolavoro per il quale tutti si sarebbero messi in piedi ad applaudire, Simeone compreso, non fosse che quella era molto più di una partita e non c’era spazio per i sentimentalismi. Un colpo al cuore che avrebbe steso qualunque essere umano e, soprattutto, qualunque compagine: ma non loro, non quelli che per 37 giornate hanno sudato ogni singolo punto che hanno portato a casa; in maniera altrettanto sofferta, in quel momento, sarebbe servita l’impresa dell’anno. E così fu. Quell’incornata così decisa, quel gesto atletico che Diego Godin avrà ripetuto centinaia di volte in carriera, beh quello in particolare non lo dimenticherà più: così come nessuno dimenticherà l’Atletico Madrid che riuscì a interrompere il binomio Barcellona-Real al vertice della Liga spagnola. E ora, per entrare nel mito, c’è una coppa con le orecchie da competere in una stracittadina che, viste le premesse, passa in cima alle priorità di ogni appassionato di calcio, anche se sarà sabato sera.
La stessa Europa che il Maccabi Tel Aviv ha conquistato – guarda caso proprio contro il Real Madrid – nella finale di Eurolega disputata al Mediolanum Forum di Assago, in un’atmosfera che ha fatto ritornare la pallacanestro italiana indietro di dieci anni, quando i grandi campioni calcavano questi parquet ogni settimana e indossavano le nostre maglie. Il Real schiacciasassi avrebbe dovuto travolgere, ammattire, spazzare e inghiottire in un sol boccone quella squadra che, a detta di tutti, già era sfavorita nella serie playoff contro Milano e, a maggior ragione, lo era anche in semifinale contro il CSKA Mosca di Ettore Messina. I miracoli sportivi, però, sono tali perché c’è sempre l’exploit di un giocatore o di un gruppo: quel Rice decisivo sino a questo momento si è ripetuto, così come il gigantesco Schortsanitis sotto le plance e il sempreverde Blu, l’uomo a cui affidare i palloni pesanti. E poi permettetemi di inchinarmi di fronte a David Blatt, un coach che ha saputo mettere in riga – in ordine cronologico – prima Banchi, poi Messina e infine Laso; un gran fetta della torta chiamata “miracolo” va a lui, indiscutibilmente.
Chi invece, in Europa, è già solo contento di arrivarci è il Parma; la vittoria sul Livorno era ampiamente pronosticabile, anche se arrivata con un po’ di sofferenza di troppo, ma quell’ultimo minuto se lo ricorderanno in molti al Tardini. La notizia del rigore per il Torino aveva scatenato la tristezza generale, salvo poi mutarsi nuovamente in gioia una volta saputo dell’errore di Alessio Cerci, le cui lacrime onestamente mi hanno fatto capire quanto si può veramente tenere a una maglia e sposare un progetto. Chissà se il Parma riuscirà a giocarla per davvero, l’Europa League, visti i problemi legali con l’UEFA e la mancata concessione della licenza; sarebbe un peccato che, una squadra che nel recente passato è riuscita a conquistarla, non riesca a difendere ciò che si è guadagnata meritatamente sul campo.
Ma qual è il minimo comun denominatore tra tutte queste squadre? Sarà banale, ma è il colore giallo. Quello che appare sulle divise, compresa quella degli Indiana Pacers; nella bellissima immagine creata dal nostro grafico Michael Paci, possiamo ammirare Roy Hibbert e Paul George, coloro che hanno acceso e spento la luce all’interno dello spogliatoio di Indianapolis. Dopo quello che è accaduto all’inizio della postseason e tutti i dubbi legati a un gruppo che sembrava sempre più vicino alla sfaldatura che al ricongiungimento, sarebbe stato lecito aspettarsi un dominio Heat in gara 1 delle Eastern Conference Finals; anche in questo caso, come nei precedenti, Davide batte Golia nonostante qui si tratti solo del primo atto.
Poi ci sono loro, che col giallo non c’entrano nulla, ma ogni volta che scendono in campo compongono una melodia perfetta, in cui ogni membro dell’orchestra sa cosa fare, come farla e soprattutto quando farla. Quando Tim Duncan venne scelto alla numero 1 del Draft 1997, io avevo 5 anni e internet era ancora un tabù per la maggior parte della popolazione; quindici anni e quattro titoli NBA dopo, lui è ancora lì con Ginobili, Parker e il nostro Belinelli. Solo una parola: grazie, San Antonio Spurs.
https://www.youtube.com/watch?v=-6NbJMq-QfU&feature=youtu.be