Un campionato in blues
Il campionato ci lascia così, come era iniziato, con la Juventus di Conte rivestita di tricolore.
Una vittoria solenne ma senza allori europei, tanto che Conte stesso non nasconde i sospiri e lascia affiorare qualche rovello intorno alla permanenza.
A diciassette punti di distanza, ecco la Roma che ha ritrovato il rango e l’ardore. Un record di vittorie in partenza e vaghe speranze di primato, fino alla vigilia della befana, quando capitolò malamente a Torino, in quella che è stata a conti fatti “la finale” del campionato, con diversi mesi d’anticipo.
Non migliora il Napoli di Benitez, nato dalle ceneri di Cavani, con un modello europeo di gioco slanciato sulle fasce e premiato dal centrino tricolore di Coppa ma comunque ben staccato sul piano competitivo interno. Né è balzata in avanti la Fiorentina del bel gioco di Montella, che conferma un quarto posto finale ma ha patito per tutta la stagione le lacrime amare di Mario Gomez, aggravate dall’ulteriore infortunio di Rossi. E può forse accontentarsi l’Inter, per quel minimo sindacale d’Europa, arrivato a migliorare se non altro il bilancio comparato con la stagione precedente.
Bisogna arrivare al sesto posto per trovare il sorriso aperto e convinto del Parma di Donadoni. L’ex ct della Nazionale rilancia i ducali e anche se stesso, ritrovando quei palcoscenici che a Parma avevano vissuto nell’età dell’oro della Parmalat, quando la maglia era gialloblu e i giocatori in campo si chiamavano Crespo, Thuram, Veron e Chiesa. A spese del buon Torino di Ventura, uno che da sempre convive con la maledizione degli ultimi minuti e dei bocconi amari dopo tanto merito. Restano le scie luminose tracciate da Cerci e Immobile e quella polvere di stelle che ci auguriamo possano portarsi appresso fino in Brasile.
Segue un disarmato Milan, incapace di portare a termine la rincorsa per saltare al volo sul predellino del treno europeo, e una spenta Lazio, intristita da una gestione al ribasso e da una contestazione perpetua.
Se l’è cavata bene il Verona, di ritorno sulla scena di serie A, grazie ai venti gol del formidabile evergreen Luca Toni e alle accelerazioni di Iturbe, prossima stella del mercato incipiente.
Ma dietro inizia la palude. Certo, dell’Atalanta si può sempre dire che ha fatto il suo, ma Genoa, Sampdoria, Udinese, Cagliari e mettiamoci pure un Chievo noiosamente salvo, hanno rimestato in quella zona grigia della classifica dove prende corpo l’idea di un campionato in decadenza, dai valori tecnici discendenti e dalla competitività a tratti sopita. Squadre che già da mesi – tranne il Chievo che ha dovuto sudarsi il pandoro della salvezza – poco avevano da offrire o da chiedere, dinanzi alla quali è lecito domandarsi se non ci rallegri la vita calcistica un ipotetico ritorno ad un campionato a diciotto se non addirittura a sedici squadre.
L’altra faccia radiosa del campionato, è quella del Sassuolo, squadra ignota al grande pubblico fino ad un paio di stagioni orsono e capace di confermare la propria permanenza nella massima serie, apportando un sentore di favola che rimanda ai giorni storici del calcio dei campanili e della provincia. L’ottimo Di Francesco, nonostante le vicissitudini vissute in panchina, con la transitoria alternanza di Malesani, rappresenta l’altra lieta novella di stagione. Un tecnico su cui puntare, tanto figlio di Capello quanto di Zeman.
La piazza del Sassuolo, l’ultima utile alla salvezza, prelude alle posizioni dove bisogna dire addio alle armi e tornarsene nell’altro mondo calcistico, tra le ombre minori della serie B. Se ne va il Catania semiargentino – che era tornato in A nel 2005 insieme alla Fiorentina di Mondonico – così come il Livorno, rapidamente rimontato sull’ascensore da cui era salito.
Ma se tutta la storia del campionato è percorsa da tracce più o meno sotterranee di blues, di rimpianti e rimorsi, soddisfazioni smorzate e rimandi a un domani migliore, il vero lacrimone di Pierrot è quello che ha rigato i volti rossoblu dei tifosi del Bologna. Come fu l’anno scorso per il Palermo, ancora una volta una squadra rappresentativa di un bacino d’utenza da capoluogo regionale – per tacer del blasone – non ha retto alla distanza e finisce sul traghetto di Caronte. La rinuncia a Diamanti e al suo contributo tecnico nel girone di ritorno, ha lasciato i felsinei asciutti e privi di sostanza calcistica. Un delitto prontamente sanzionato: sarà pur vero che la somma tecnica del campionato si è impoverita, ma non al punto da consentire la salvezza a chi ha voluto rinunciare al plusvalore della bellezza pensando di supplire con il podismo feriale. Se in un campionato che a conti fatti ha lasciato una malinconica scia di retropensieri in blues, dovessimo affidare un pezzo alla voce di Billie Holiday, è proprio la triste storia del Bologna che meglio si presterebbe al racconto. A presto, Bologna.