C’era dieci anni fa: Roberto Baggio

L’ultima fu il 16 maggio 2004 e accadde alla Scala del calcio, in un Milan-Brescia 4-2. Da allora son passati dieci anni. Senza Roberto Baggio. Pochi giorni prima, Baggio aveva disputato contro la Spagna la sua ultima partita in Nazionale, per salutare tutti i suoi tifosi. Perché Baggio fu patrimonio di tutti, non solo dei tifosi di Fiorentina, Juventus, Milan, Bologna, Inter e Brescia, ma soprattutto dei tifosi della Nazionale, come pochi altri dopo di lui.
E ci manca, come manca un certo modo di giocare a calcio, soprattutto in vista dei mondiali brasiliani, quando perfino la nazionale della samba e del futbol bailado sembra aver sacrificato la gioia della giocata irridente a favore del gesto atletico tecnico ma essenziale, senza fronzoli aggiunti.

Cresciuto con il mito di Zico, Roberto Baggio era fatto della stessa materia di cui erano fatti i numeri 10. Né registi né mezzale, nemmeno punte o falsi nove ma proprio numeri dieci, contraddistinti più che dalla posizione in campo, da una capacità sopraffina di toccare la palla.
Sono i suoi gol a mancarci. Quelli in cui dribblava con gusto e vento alle spalle mezza difesa del Napoli, come fece con la Fiorentina nell’89, in volo libero sulle entrate dei difensori azzurri e davanti a sua maestà Maradona. O quelli in cui infilava morbidi pallonetti liftati, come fece con il Brescia contro l’Atalanta. Tecnica pura, Roberto Baggio era di quelli che guadagnava tre metri e tre secondi sull’avversario, solo con il controllo di palla. Come fece con Van der Saar, sempre con la maglia del Brescia. In simpatia predestinata con la traiettoria del gol, ai mondiali di Usa ’94 Baggio realizzò una rete decisiva contro la Spagna da posizione decentrata, dopo aver fotografato mentalmente la porta. Con la Juve contro il Borussia, in finale di Coppa Uefa, pulì l’incrocio direttamente da punizione. Tutto suggerendo sempre un’idea di morbidezza. Con serpentine e dribbling, calci piazzati e infilate millimetriche: son dieci anni che non si segna più così. Magari alcuni vanno in gol con conclusioni altrettanto belle, ma sempre dando l’impressione di essersi limitati ad un ultimo gesto decisivo, dettato dalla necessità piuttosto che dall’istinto emotivo. Baggio invece galoppava, seguendo un istinto che automaticamente selezionava le opzioni in campo, appostato controvento per fiutare le occasioni e approfittare di ogni spazio libero, dei millimetri anticipati, delle libertà concesse.

“Tutto Baggio è una gran coda di cavallo che avanza scacciando la gente in un elegante andirvieni”, scriveva Galeano. “Il piccolo grande unico ed ultimo vero fantasista e favoliere del calcio nostro”, ripeteva Vladimiro Caminiti. “Ho avuto la fortuna di vedere Meazza e ho pensato a lui quando ho visto Baggio”, chiosava Brera.

Provate a rivedere oggi, magari semplicemente ricercandolo su google, il gol del giovane Baggio alla Cecoslovacchia, ai mondiali del ’90. La finta per scartare al centro ubriacando i difensori prima di segnare, è puro languore sudamericano.
Non lo piegarono i tremendi infortuni alle ginocchia, né Lippi. Casomai gli mancò la sorte, in finale di Coppa Uefa con la Fiorentina, sul dischetto di Pasadena a Usa ’94, nella volèe finita fuori “di tanto così” contro la Francia nel ’98 o quando si infortunò prima dell’ambito mondiale del 2002, dopo aver dato l’idea in un primo momento di poter convincere Trapattoni. Quella mancata convocazione fu una delle più grandi delusioni della sua carriera.

A pensarci oggi, chiudendo gli occhi e distraendosi un po’, alla fine verrebbe quasi da chiederlo al CT: Prandelli, come si fa a non convocare Baggio?

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Paolo Chichierchia