Ayrton, 1960-1994
Venti anni. Una vita fa. E, se non è una vita, allora è una generazione intera, o quasi. Quanti di noi lo hanno conosciuto soltanto per sentito dire? Oggi Ayrton Senna sarebbe un ex campione di 54 anni: forse ancora nel giro (come procuratore, come uomo immagine, come uomo al muretto: chi lo sa), o forse farebbe tutt’altro.
Venti anni, una vita fa. Un tre volte campione del mondo che se ne va così, senza quasi avvertire. Anche se c’era nell’aria un nonsoché: si diceva che quella domenica Senna non volesse correre. Era passato alla Williams, che nelle ultime stagioni era diventata la vettura da battere, proprio nel momento in cui una rivoluzione nel regolamento (come quest’anno) ne aveva seriamente minato la competitività.
Tante cose, tanti pensieri, sono ormai storia. A partire dal 1983, quando Ayrton cambia: vince la Formula 3 e decide di abbandonare il cognome del padre (Da Silva), troppo comune, in favore di quello della madre. Facile vedere il precedente in Nelson Piquet (all’anagrafe Souto-Mayor). Nel 1988 arriva la McLaren, e i duelli con Prost: tre titoli in quattro anni, per gradire.
Venti anni e un altro mondo: corse più ruspanti, piloti non telecomandati dal muretto, e scontri epici. Nel 1990 il secondo campionato vinto, “macchiato” dallo speronamento a Prost (Ayrton ammise di averlo fatto di proposito), nel 1991 la vittoria in Brasile, campionato di casa, in condizioni terribilmente complesse.
Era un altro mondo, ma cominciava a esserci l’iperprofessionalizzazione di oggi: Senna era un atleta esemplare; eppure a fine gara svenne, dato che aveva dovuto condurre gli ultimi giri tutti in sesta marcia, col cambio rotto. Pensiamoci bene: con l’elettronica di oggi, sarebbe impossibile. Ai tempi, fu un’impresa.
Anno 1992, ancora alla McLaren: strapotere Williams, Schumacher astro nascente sulla Benetton. Due episodi su tutti: a Magny Cours viene tamponato da Schumacher, ed entrambi finiscono fuori gara. Il campione contro lo sfidante: Senna fa la voce grossa, ma soprattutto fa un gesto per allontanare i giornalisti. Un peccato, una colpa? No, un’evidenza: era una questione tra piloti, andava risolta tra piloti. Ciò che è in pista, alla fine, lì deve rimanere.
A Spa, invece: il francese Érik Comas durante le prove ha un incidente e carambola in pista. Il pilota sviene, a motore acceso e col piede premuto sull’acceleratore. Il primo a fermarsi è Senna: rischiando la vita (Comas “accelerava”, e l’esplosione era solo questione di tempo), spegne il motore e poi si ferma a raddrizzare la testa del francese. Ciò che è in pista sta in pista; la vita è un’altra cosa.
Curioso contrappasso, quel 1° maggio 1994: a causa del piantone dello sterzo (risaldato, presumibilmente male) e di una via di fuga non efficace, Senna va a schiantarsi alle 14.17. Il francese usciva ai box, ma nei momenti concitati nessuno riuscì ad avvertirlo che la corsa era stata sospesa: Comas arriva al Tamburello a tutta velocità, bandiera rossa sventolata in faccia, frenata e (inutile) squalifica.
Il resto è storia: Comas vede il casco distrutto di Senna, che di fatto viene ucciso dal braccetto della sospensione anteriore. A parti invertite, stavolta non c’è alcun favore ricambiabile: Senna morirà alle 18.40. Poi saranno storie di camera car censurate, pezzi spariti e scatole nere danneggiate.
Storia, storie. Schumacher che piange in diretta mondiale, il giorno in cui supera le vittorie di Ayrton: che per lui era stato un esempio e l’avversario da soppiantare. Oppure quella bandiera austriaca dentro l’abitacolo della Williams, quel tragico 1° maggio: a Imola era stata follia sin dal primo momento, con Barrichello in coma e la morte di Ratzenberger. Ayrton avrebbe voluto ricordarlo con quella bandiera: avversari in pista, umani fuori. (Come ha detto una volta Nino Benvenuti, su Emile Griffith: non puoi non diventare amico di un pugile con cui hai combattuto 45 round.)
Questo era Senna. Rampollo di buona famiglia, competitivo, professionale, ma con una personalità enorme, e un’anima. Faccia gentile, ma anche la determinazione di chi sa di essere il migliore tra i migliori. Forse suona inappropriato; ma nel suo modo di correre vedo qualcosa dei duelli cavallereschi (cortesie e scortesie, in egual misura, si ricambiano sempre: vale in un modo con Comas, valeva in senso opposto con Prost).
Venti anni, venti anni ancora. Senna, leggenda in pista, è passato alla storia anche per la sua scomparsa. Improvvisa, ma non priva di conseguenze: se dovessimo cercare qualcosa di positivo in quel folle finesettimana imolese, è la constatazione che, dopo di lui, i regolamenti sono stati adattati, e in Formula 1 di incidenti mortali non ce ne sono stati più.
Ma c’è un altro parallelo: così come da allora la Formula 1 ha perso il suo tono cavalleresco, andando alla ricerca solo della prestazione (come se ogni pilota corresse una gara per sé), così ai tempi il Brasile era diverso: un paese in crescita, ma ancora pieno di problemi. Era il Brasile delle favelas; adesso è il Brasile delle favelas, e dei Mondiali e delle Olimpiadi. Ayrton è rimasto icona di un paese, sì; ma forse anche di un paese che non c’è più. E anche icona di uno sport che non c’è più.