Il più grande insegnamento che la pratica sportiva ci possa dare è capire quanto paghi la pazienza. Credere nel proprio lavoro ogni giorno, allenamento dopo allenamento, consci (e non speranzosi, ma sicuri) che i risultati arriveranno.
Passeranno mesi, forse anni, ma alla fine quel movimento lo faremo in modo esatto ed eseguiremo i gesti tecnici con sempre maggiore sicurezza fino a trasformarci in atleti.
Se siete nati negli anni ottanta e siete interisti, probabilmente il tifo è diverso per voi rispetto a quello di altri. Abbagliati da Trapattoni e l’Inter dei tedeschi da bambini, poi illusi dai colpi di mercato a ripetizione della fine degli anni novanta e dai mille illustri sconosciuti pronti a prendere i soldi di Moratti per poi scappare a gambe levate quando la squadra otteneva risultati – alla meglio – alterni.
Se siete nati a Milano la situazione è stata ancora più faticosa: quelli con la maglia rossonera a vincere tutto e prendervi in giro per l’incapacità dei vostri beniamini di portare a casa anche la più umile delle coppe. Dalle elementari all’università: un inferno fatto di continue battute e cori famosissimi che, per quanto tentiate, difficilmente riuscirete a dimenticare.
Non basta un giocatore a tenervi attaccati a una fede calcistica, ma se una persona del genere potesse esistere, essa sarebbe Javier Zanetti. Lui è paziente, sa che ogni giorno si migliora, allenamento dopo allenamento, è sempre stato conscio (non speranzoso, ma sicuro) che i risultati sarebbero arrivati.
Quante volte avete pensato “Finché c’è lui, finirà tutto per il meglio”? Avevate ragione: ci è voluto un grande allenatore e una delle rose più complete nella storia del calcio, ma il capitano dell’Inter ha potuto alzare la Champions League e cinque trofei di campione d’Italia prima di ritirarsi. Le coppe contano poco: l’importante è che l’argentino abbia insegnato a intere generazioni a coltivare il lavoro quotidiano, ad avere pazienza, ad aspettare i risultati.
Ha inoculato fiducia in un popolo di tifosi, rimanendo una figura di riferimento in campo quanto fuori da esso.
Il giorno seguente alla prematura scomparsa di Giacinto Facchetti, Giampiero Mughini, non esattamente un tifoso nerazzurro, ricordava il numero 3 come il componente più importante, di gran lunga più carismatico e più forte della Grande Inter che negli anni sessanta cambiò la storia della società nerazzurra e un po’ anche quella del calcio.
Nel 2010 c’erano Eto’o, Milito, Sneijder. C’era Samuel, c’era Cambiasso al picco della carriera e il rincalzo in attacco era un ragazzino italiano spaventosamente dotato. In panchina José Mourinho, uno dei migliori allenatori al Mondo.
Ma il ricordo più splendente di quella squadra rimarrà Javier Zanetti, colui che c’era prima di tutti quei fenomeni e che ci sarebbe stato in seguito, colui che ama più di ogni altra cosa il lavoro, il campo d’allenamento e la palestra. Che conosce un unico modo per primeggiare: faticare, rimboccarsi le maniche e avere pazienza.
È giunto il momento di dire “arrivederci” anche per lui. Il capitano si arrende al tempo, nonostante il fisico sembri quello di un ventunenne. Non ci pare verosimile che qualcun’altro abbia l’indecenza di chiedere di indossare il 4 su fondo nero e azzurro; crediamo che ognuno di noi, anche non interista, speri che Thohir non tradisca un personaggio del genere rifiutandosi di ritirare il suo numero. Quella maglia deve rappresentare qualcosa di più di un giocatore che per vent’anni ha fatto la storia di una singola società, deve servire a tutti coloro che perdono la fiducia per riacquistarla, per crederci fino alla fine. In campo quanto fuori da esso.