Se ne è andato di domenica, come ad aspettare un finale di partita. La vita di Vujadin Boskov è stata così, scandita dal ritmo del pallone, ma sempre con il sorridente estro balcanico che gli apparteneva.
Da calciatore, Boskov attraversò gli anni ’50. In patria, fu giocatore del Novi Sad, club della regione della Vojvodina, di caratura inferiore a Partizan, Stella rossa e Hajduk, squadre favorite dal regime. A 22 anni, Boskov fu convocato in una selezione del Resto d’Europa che pareggiò 4-4 contro i maestri inglesi. Non fu un mediano qualunque, ma una colonna della Jugoslavia, insieme a Vukas, Zebec e Milutinovic. Fu una grande squadra, degna di figurare in una tradizione che dall’Austria di Sindelar e Meisl all’Ungheria di Puskas e alla Cecoslovacchia di Masopust, rappresentava il meglio della scuola danubiana e dell’Est. Boskov era in campo sia nel ’55, quando la Jugoslavia rifilò un tremendo 4-0 all’Italia a Torino sia nel ’57 a Zagabria, quando finì ben 6-1. Con la maglia degli “slavi del sud”, Boskov vinse la medaglia d’argento olimpica nel ’52, quando solo lo strapotere dell’Ungheria si frappose alla conquista dell’oro, e disputò due mondiali.
Sul finale di carriera, mise per la prima volta piede a Genova, disputando una stagione con la Sampdoria.
Prima di tornare in blucerchiato però, Boskov visse altre esperienze importanti. Dapprima in Olanda, dove allenò nell’epoca del fervore per il calcio totale, portando al successo nella coppa nazionale il Den Haag, squadra dell’Aja. Girovagò ancora, sino ad arrivare sulla panchina più prestigiosa, quella del Real Madrid con cui vinse due scudetti e una coppa nazionale tra il ’79 e l’82. Memorabili le sfide di semifinale in Coppa dei Campioni contro l’Inter di Bersellini, nel 1981: da una parte la coppia Juanito e Santillana, dall’altra Altobelli e Beccalossi. La spuntò Boskov, ma dovette arrendersi in finale a Parigi contro il fortissimo Liverpool di Dalglish e Souness, vera squadra dominante in quegli anni.
Boskov si concesse qualche altro giro, fino ad arrivare nell’84 su una panchina di serie B italiana, quella dell’Ascoli del Presidente Rozzi. Raggiunse la promozione e salutò il capoluogo piceno, pronto ad iniziare l’ennesima avventura, quella che maggiormente gli diede fama in Italia: la panchina della Sampdoria di Mantovani. Dall’86 al ’92, furono anni storici, lunghi e ricchi di successi, dalle Coppe Italia alla Coppa della Coppe, fino a raggiungere, nel 1991, uno scudetto destinato a restare ad imperitura memoria. Boskov nel tempo plasmò una squadra che ruotava intorno alle meraviglie del tandem Vialli – Mancini, dei quali aggiustò le posizioni in campo. Vicino a loro, lasciò libero di scattare Attilio Lombardo, mentre a centrocampo lasciò governare il grande Toninho Cerezo e lo slavo Katanec. In difesa, Vierchowod e Mannini blindavano gli accessi alla porta di Pagliuca, sempre pronto comunque a metterci la manona all’occorrenza.
Distribuendo aforismi e sapienza tattica, la Sampdoria di Boskov fu in grado di reggere gli urti degli avversari, che in quegli anni erano il Napoli di Maradona ed il Milan di Sacchi. Ancora una volta, sfiorò l’alloro continentale, arrivando a giocarsi una finale di Coppa dei Campioni contro il Barcellona di Crujff, cedendo solo di misura e su calcio piazzato, ad una manciata di minuti dal termine.
Lasciata la Samp, Boskov transitò brevemente anche sulla panchina della Roma, lasciando comunque un paio di ricordi anche tra i tifosi giallorossi: il 2-0 di Coppa Italia che mise fine ad undici mesi di imbattibilità del Milan (memorabile la fuga in contropiede di Caniggia all’ultimo minuto) e l’esordio concesso, una quindicina di giorni dopo, al giovane Francesco Totti.
Fautore di un calcio accorto e tattico, tuttavia non meramente speculativo, Boskov riteneva che la zona si confacesse soprattutto ai giocatori brasiliani. Riteneva la tattica del fuorigioco già superata e limitava il pressing solo ad alcune situazioni. Era convinto che fuori dal campo i giocatori dovessero imparare a regolarsi da soli, anche sessualmente. Un giocatore di talento sarebbe comunque sempre stato capace di emergere: “Un grande giocatore vede autostrade dove altri solo sentieri”. Il calcio divertimento, per Boskov, non nasceva solo da una vocazione tattica, ma innanzitutto dalla testa dei calciatori. Se si fosse divertito chi scendeva in campo, si sarebbe divertito anche il pubblico.
Lui, di certo, non ha mai voluto rinunciare al sorriso. Come quando, in maniera irreverente e fuori da ogni spartito noiosamente protocollare, espresse il proprio giudizio sul calciatore genoano Perdomo: “Se io sciolgo il mio cane, lui gioca meglio di Perdomo”. Non ce ne voglia Perdomo o i suoi più fedeli biografi. Ma anche per questo modo di essere, Boskov ci mancherà come uomo di calcio sì, ma di un calcio con il sorriso.