Prendo in prestito, per una volta, la versione italiana del titolo di un film del mio regista preferito. Lo faccio perché mi pare calzi benissimo: il Wigan ieri è stato un po’ quel personaggio timido ma di grande cuore, impacciato eppure orgoglioso.
Sto parlando, non fosse chiaro, della competizione calcistica più antica del mondo, quella FA Cup simbolo di un calcio che si è modernizzato ma che certe tradizioni le vuole conservare. Nel più classico degli scontri tra Davide e Golia, il gigante Arsenal si è trovato di fronte al piccolo ma volenteroso Wigan, detentore della coppa dopo la magia dell’anno scorso in finale contro il Manchester City.
Che poi, a pensarci bene, il nome Wembley e quello di questa cittadina di 80mila abitanti della Greater Manchester hanno ormai fatto amicizia. Non bastassero gli usuali viaggi a Londra dei Wigan Warriors di rugby a 13, quelli sì che sono giganti, ma un anno fa tra semifinale e finale questi Latics si sono sentiti all’ex Empire Stadium come in una seconda casa: vuol dire che ci si trovano bene, vuol dire che non se ne volevano andare.
Piccola parentesi, importante per capire di che parliamo: sul finire della stagione 2012-2013 il Wigan di Roberto Martinez (ora allenatore dell’Everton quarto in classifica) aveva vissuto esperienze contrastanti, con il trionfo nella coppa nazionale accompagnato dalla triste retrocessione in seconda serie. Quella Championship che anni fa brillava sugli schermi della tv italiana, quella serie cadetta così lunga e consumante con le sue 24 squadre, le sue 46 giornate e i playoff per chi proprio non vuol farsi mancare niente.
Insomma, 2013-2014 quantomeno anomalo per i Latics, creatura a questi livelli di un inglese puro come Dave Whelan, conservatore in politica ma tifoso vero quando si tratta di football, Wigan e rettangolo di gioco. A rendere l’annata sportiva ancora più stravagante e movimentata, l’Europa League, privilegio di chi vince la FA Cup e casa inusuale per chi la Premier League l’ha dovuta salutare: preliminari e fase a gironi, serate e notti europee con quasi il guizzo della qualificazione ai sedicesimi. Troppo, onestamente, per chi settimanalmente si misura con avversari certo non di caratura europea, pur in una cadetteria che avrebbe poco da invidiare a certe serie nazionali: resta il cuore di un gruppo ormai abituato a ritmi massacranti e a giocare una partita dopo l’altra, nella marcia infinita verso un giugno di riposo, finalmente.
La semifinale di ieri, giocata nello stadio che è casa della nazionale dei Tre Leoni e sede di tutte le finali del calcio professionistico inglese, è stata dominata dall’Arsenal sul piano del gioco, ma non ho nulla da ridire sull’atteggiamento del Wigan, lavoratore, duro, fiero e stoico nello sforzo. Nella versione 2013-2014, con al timone un pragmatico tedesco di nome Uwe Rösler, i Latics sono arrivati a un passo dallo storico secondo pass consecutivo per la finalissima, a due rigori dallo scalpo della quarta-quinta forza della Premier League, la lega più ricca del mondo.
È mancato davvero poco, in una di quelle situazioni dove le gambe smettono di rispondere e allora è il cuore a muovere muscoli e corpo (ne vivremo ai mondiali, siatene certi), nel pomeriggio infinito di questi ragazzi che stavano per fare lo scherzetto all’Arsenal di Arsène Wenger, di Aaron Ramsey e altri campioni: non ce vogliano i tifosi dei Gunners, che sognano il primo trofeo in 9 anni, ma il nostro pensiero va a questi quasi eroi.
A questi che stavano per fare l’impresa.
Ai vinti che ora a Wembley ci vorranno tornare, nella finale dei playoff per il salto di categoria: provaci ancora, Wigan. Un’altra occasione te la meriti tutta.