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Pjanic, la ciliegina sulla torta

Sono passati ormai otto mesi da quando, nel luglio 2013, la Roma si apprestava a iniziare l’ennesima nuova avventura degli ultimi anni: un cambiamento radicale, con un allenatore sconosciuto ai più e un sacco di giocatori perennemente in discussione per le loro prestazioni mediocri, nonostante un talento certificato in più sedi. Miralem Pjanic era proprio uno di questi, un centrocampista dai piedi raffinati che, con Zeman prima e Andreazzoli poi, aveva deluso le attese dell’intero popolo giallorosso.

Credo che nemmeno il più ottimista tra i tifosi romanisti avrebbe previsto un’annata simile, in cui la Roma è stata in grado di vincere le prime dieci gare in campionato – record assoluto in Italia – e la costante sensazione di produrre un gioco spumeggiante, innovativo anche se un po’ sprecone in fase realizzativa. A posteriori il rammarico per i punti persi a metà campionato sono tanti, ma dubito che Pallotta possa rimproverare qualcosa al tecnico, ai giocatori e a tutto lo staff tecnico. La prova che la società sia matura sotto quasi tutti i punti di vista, inoltre, deriva dal fatto che a più riprese il gioco di Garcia non si è modificato in base agli interpreti in campo, ma viceversa. Vedere Taddei disputare certe partite nel ruolo di centrocampista centrale è un segnale inequivocabile, considerando che altrove giocatori come Kovacic faticano anche solo a ritagliarsi un posto in una squadra con una classifica decisamente peggiore. L’esplosione di Romagnoli, uno di cui sentiremo parlare molto da qui in avanti, è l’emblema che a livello giovanile si sta facendo un ottimo lavoro, cercando di inserire anche i campioni del domani in maniera graduale in prima squadra. Poi Florenzi, Destro e un certo giovane chiamato Francesco Totti, uno che con questo tipo di gioco potrebbe smettere di giocare anche a 50 anni. Sempre che smetta.

Fatte le dovute premesse, quello che mi ha colpito di più è stato sicuramente Pjanic: in primis perché impazzisco per questi giocatori che, alla quantità, abbinano qualità tecniche di primissimo livello. Sono loro che ti fanno fare la differenza, sono loro che ti permettono di riportare subito sui binari giusti una partita difficile come quella contro il Parma, con una serpentina che avrebbe fatto invidia anche ad Alberto Tomba. Sono loro che, infine, segnano pure il gol della relativa tranquillità con un colpo da biliardo, di piatto destro, all’angolino. Proprio lui che, a luglio, era probabilmente il giocatore più contestato in un ambiente che era ed è tutt’ora una polveriera pronta a esplodere, ma nel senso diametralmente opposto. Quelle che a luglio erano pietre che i tifosi avrebbe volentieri lanciato contro le automobili dei calciatori – e per poco non è andata davvero a finire così – oggi quegli stessi sassi, probabilmente, verrebbero utilizzati per erigere una statua allo “sconosciuto” Rudi Garcia, uno che a memoria credo abbia sbagliato sino adesso solo un paio di partite in Italia. L’entusiasmo è a mille, probabilmente non arriverà lo scudetto ma, sebbene nel calcio vincere sia la cosa più importante, i giallorossi per adesso possono anche farne a meno: a maggior ragione se, all’orizzonte, c’è uno stadio in cantiere che promette di ricreare la suggestione del Colosseo, il cui fascino a livello globale non lo deve di certo sottolineare il sottoscritto.

Per il bosniaco, oggi, i dirigenti della Roma non ascolterebbero nemmeno offerte inferiori ai trenta milioni di euro, una plusvalenza enorme che, considerati gli undici milioni spesi per prelevarlo dal Lione, in sede di mercato potrebbe aprire nuovi orizzonti al club giallorosso: un po’ lo scenario che ha permesso a Lamela di esplodere l’anno scorso, seppur oggi venga impiegato con il contagocce al Tottenham. Ma per una squadra che ambisce a certi obiettivi, in Italia e in Europa, vale davvero la pena privarsi di un giocatore con caratteristiche così  uniche e determinanti?