Metti una serata di Champions, che è anche serata tra amici.
Stamford Bridge ha ospitato, ieri notte, il gran ritorno di Didier Drogba in quello che era e resta il suo regno, lo stadio del Chelsea non troppo tempo fa campione d’Europa.
Un campione vero, l’ivoriano, e non lo scopriamo oggi; c’è tuttavia qualcosa di più, qualcosa di storico e di epocale nell’accoglienza riservatagli dalla sua vecchia gente, da quei tifosi sballottati, tra una storia fatta di orgoglio e ricchezze russe. Trionfi di lotta e di governo.
Nel ritorno degli ottavi di finale di Champions League, il Chelsea e José Mourinho hanno offerto al grande pubblico del calcio europeo una prova maiuscola, superba, compatta e autoritaria. Da grande squadra, che ha un piano partita e sa come attuarlo: un bel segnale a Bayern, Real e Barcellona, superiori sì ma poco tranquilli nel caso l’urna dei quarti scriva “Chelsea”.
Perché la verità è che questa squadra dovrebbe essere esausta e invece non lo è, seppur stretta tra la corsa a quattro in Premier League (il campionato inglese più elettrizzante dell’ultima decade) e l’ansia dell’Europa, tra vincere tutto e vincere niente.
Ha detto bene Paolo Rossi, ieri sera a Sky: “Il Chelsea è più squadra”, rispetto al Galatasaray, ed è proprio compatta e focalizzata sugli obiettivi. C’è tanto dello Special One nel carattere mostrato da questi ragazzi in blu, bravi in passato ad arrangiarsi contro gli avversari più organizzati, abili ora ad imporsi e non farsi risucchiare dalle aspettative.
La mia sensazione è che, per puro paradosso, l’esistenza di almeno tre squadre (e mezzo, se si conta anche il Paris Saint-Germain) di Champions onestamente superiori abbia liberato la mente di questi giocatori, a cancellare alcune responsabilità e scacciare i cattivi pensieri. Se sai che tre o quattro club sono percepiti, da tutti, essere più forti di te, tutto ciò che fai è oro colato, è guadagnato, è un’aggiunta.
È un po’ come quando Mourinho dichiara che il suo Chelsea è un lavoro pluriennale, che non deve vincere per forza: significa scaricare l’onere del successo sugli altri, nel più classico dei mind games simbolo della Premier League attuale.
Giochi fatti tremendamente bene, quando sei nato “speciale” e la coppa l’hai già vinta con Porto e Inter.
E chissà che non ci stupisca ancora.
Il mio euro lo punterei.