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Marco Pantani (fonte: wikipedia.it)

Marco Pantani (fonte: wikipedia.it)

Dieci anni, Marco. Da giorni ormai giornali e media ne parlano, approfondimenti, speciali, interviste. Personaggi prestigiosi, compagni di fatica, ciclisti e giornalisti di ieri e oggi a ricordare chi eri e cosa hai fatto. Io non ti scriverò nulla di tutto ciò, è giusto che a farlo siano persone più esperte e che meglio ti conoscevano. Oggi son qui a scriverti solo ciò che hai rappresentato nell’infanzia e nell’adolescenza di un ragazzo qualsiasi appassionato di sport. Con la “presunzione” di credere che quelle stesse emozioni io le condivida con una generazione e più.

Non fu “amore” a prima vista tra noi: era il Giro ’94, avevo nemmeno 11 anni e contagiato da mio nonno – chi altri se non i nonni a trasmettere la passione per la bici?! – iniziai ad appassionarmi al ciclismo. Fu subito passione per questo sport, ma non per te Marco. Mi vergogno un po’ ad ammetterlo, ma tifai Berzin. Non chiedermi perché, vuoi il voler vedere interrotta l’egemonia di Indurain, vuoi che prese presto la maglia rosa, vuoi perché adoravo Vianello e tra il russo e il buon Raimondo si creò un simpatico siparietto, ma “scelsi” lui.

Poco importa comunque, avrò modo di ricredermi e avrai modo di regalarmi gioie ed emozioni. Ormai le due ruote, rigorosamente a pedali, erano entrate “in me” e per non lasciar dubbi misi tutto “nero su bianco” durante il tema d’esame di quinta elementare: “Immedesimati e vivi una giornata come un tuo beniamino” era all’incirca la traccia e io, pur milanista con negli occhi il 4-0 al Barcellona nella finale di Atene, divenni il capitano della Gewiss-Ballan per qualche ora. La maestra non comprese molto, benché meno apprezzò. Poco importava.

Il primo “mea culpa” potei farlo presto col Tour dello stesso anno ma i tuoi infortuni fecero diventare la nostra una sorta di “relazione a distanza”, nell’attesa di poterti riabbracciare. Nel mentre, un altro “tradimento”, con l’avvincente duello Gotti-Tonkov vinto dall’italiano e con il tricolore tornato finalmente a sventolare sul gradino più alto del Giro d’Italia dopo sei anni. Era il 1997, era l’alba della tua consacrazione.

Alpe d’Huez, Montecampione, Les Deux Alpes e la storica doppietta Giro e Tour ’98: avevi riscritto il ciclismo moderno. A primeggiare non era più il robocop che resiste in salita e macina minuti a cronometro, ma lo scalatore, di scatto in scatto, di salita in salita. Andavi forte quando le pendenze aumentavano per abbreviare l’agonia, dicevi. E allora… scatta Pantani!

Proprio il tuo continuo alzarti sui pedali finì per trasformare l’esclamazione dei De Zan (padre e figlio) in locuzione, in una cosa sola. “Scatta Pantani!” divenne parte del linguaggio comune mio e di milioni di italiani. Bastava il loro suono, d’estate in bici con gli amici, per trasformare una passeggiata in una gara, un palo o delle strisce in un traguardo, una salita nella “Cima Coppi”. A volte la “corsa” improvvisata finiva con qualcuno ad “accarezzare” più del dovuto l’asfalto, ad abbracciarlo: potrei ancora contare le cicatrici. Qualcuno potrebbe dire – anche a ragione – che eravamo imprudenti, irresponsabili, immaturi, ma era impossibile non lasciarsi coinvolgere dalle tue imprese e tentare di emulare la tua grinta, la tua voglia di provarci, attaccare, aggredire. Di divertirti in sella.

Senza paura di essere smentito credo fu proprio questa tua indole a stregarmi, e stregarci, tenendoci incollati allo schermo i primi pomeriggi di primavera, come quelli ben più caldi di luglio. Giro o Tour che fosse, c’eri tu e dunque la certezza che come la strada sarebbe salita ci sarebbe stata bagarre, avresti dato battaglia e avremmo sentito quelle due splendide parole – “Scatta Pantani” – seguite dalle immagini di te sui pedali, a fare il vuoto.

Il vuoto. Già. Ciò che è rimasto da quando nella carovana non ci sei più tu. Non sono un tipo che tende a commuoversi o a piangere emeriti sconosciuti solo perché famosi. Cinicamente, di solito mi infastidisce anche come atteggiamento. Eppure oggi sono qui, stringendo questa penna virtuale, a scriverti una lettera che mai leggerai, tenendo metaforicamente per mano quell’ingenuo bambino di 10/11 anni per riparare a un innocente errore di infanzia. Perché, anche se con venti anni di ritardo e grazie allo spazio concessomi da MondoPallone.it e da Pietro Luigi Borgia (“suoi” gli editoriali del venerdì), posso finalmente scrivere allo sportivo che più di ogni altro mi ha emozionato e commosso queste poche ma semplici e oneste parole:

GRAZIE MARCO. Grazie, Pirata.