Neanche 92 anni dopo, all’Udinese riesce l’impresa di centrare nuovamente la finale di Coppa Italia. Quella della prima edizione del 1922, persa ai supplementari contro il Vado di Levratto, a tutt’oggi è l’unica finale raggiunta dai friulani nel corso della propria storia calcistica.
Gli anni trascorsi sotto Guidolin, nel solco della continuità con gli allenatori del passato, a partire da Zaccheroni e passando per Spalletti, hanno plasmato un’identità di squadra forte, tale per cui a un certo punto della stagione, quando i meccanismi acquisiscono automatismi cibernetici e le gambe girano a pieno regime, l’Udinese sembra avere una marcia in più, in particolare quando si tratta di innestare lo scatto sulle ripartenze e folgorare avversari sorpresi in avanscoperta. Ma, vuoi perché Di Natale ha pur sempre una certa età, vuoi perché la partita di giro tra acquisti e vendite a lungo andare si è chiusa con un saldo tecnico negativo, questa volta non è bastato.
Ora la strada per l’Europa diventa proibitiva. Già, l’Europa conquistata e presto smarrita nelle ultime stagioni, poteva rappresentare ancora una volta il traguardo a sorpresa che avrebbe consentito di celebrare il “modello Udinese”, qualunque fosse stato l’esito della sfida all’Olimpico del prossimo 3 maggio. Ma così non è stato. Ancora una volta l’Udinese esce, sicuramente a testa alta come spesso le accade, ma comunque, esce.
A questo punto, però, al posto dei tifosi bianconeri, qualche domanda inizieremo a farcela.
Non si contano i giocatori che, dagli anni ’80 ad oggi, la longeva presidenza della famiglia Pozzo ha saputo scovare, allevare, valorizzare e poi vendere: Handanovic, Benatia, Isla, Asamoah, Candreva, Alexis Sanchez, per tacer dei tempi di Bierhoff, Fiore, Amoroso e Jorgensen e tanti altri che, così all’impronta, non ci sovvengono. Ogni anno, la solita storia: vendere, realizzare, investire di nuovo su altri talenti e ancora rivenderli, mantenendo fisso un nucleo di mestieranti esperti alla Domizzi o Pinzi, giunture e cardini del modello che si intende replicare. Tanto più possibile, se poi davanti si può contare su un fuoriclasse come Di Natale, che varcata la soglia dei trent’anni, ha saputo far fruttare in provincia il proprio talento, approfittando anche di uno stress minore e di un’asticella degli obiettivi posta comunque a mezza altezza. Dal punto di vista della politica mercantile, si tratta di una strategia inappuntabile. Dal punto di vista sportivo, invece, i friulani meriterebbero qualche soddisfazione maggiore. Come sarebbe stato poter vedere una volta una finale di Coppa Italia. In passato, per restare in ambito di provincia, Sampdoria e Parma ne sono state capaci. E anche l’ultima Lazio di Lotito, volendo riportare l’analogia sul piano di un’altra presidenza notoriamente accorta ai bilanci, ha saputo arrivare fino in fondo.
Davvero può bastare la consapevolezza di essere considerati un modello di gestione o la compiacenza ragionieristica di aver fatturato ad altri le prestazioni dei propri campioni a prezzo d’oro, per contentare una tifoseria, ormai abituata a vedere i propri beniamini vincenti altrove?
Magari per l’Udinese di quest’anno non si può parlare proprio di crisi, visto che comunque non rischia nulla in campionato, ma l’augurio per i sostenitori friulani è che dalla sconfitta fiorentina nasca nella famiglia Pozzo quello scatto di orgoglio che possa portare a pianificare le prossime stagioni anche in funzione di un obiettivo finale. Un bersaglio che non sia fin da principio decoubertiniano, che abbia la lucentezza di un trofeo o il prestigio di una partecipazione non meramente gregaria ad una competizione europea. Evitando di vendere subito e motivando i propri talenti a trattenersi un po’ di più ad Udine, giusto il tempo di vincere qualcosa o, almeno, provarci davvero. Forse per qualche tempo in società incasseranno di meno e il modello Udinese squadrerà nei saldi parziali, ma chi gestisce la contabilità delle passioni popolari, avrebbe anche il dovere di ridistribuire qualche dividendo, in termini di soddisfazioni, al territorio e a chi lo ama anche attraverso i colori di una squadra.