Se tre indizi fanno una prova, a giudicare da quanto si vede sui campi di Roma, Firenze e Torino, sono tornate a volare le ali, sul verde brillante delle praterie italiane. Dopo anni in cui gli schieramenti tattici si avvitavano intorno a terrificanti incursioni di terzini, in risalita dalla retroguardia come salmoni controcorrente, con l’incarico formale di spiattellare dal fondo freddi traversoni in area, destinati a tramutarsi talvolta in assist solo per la legge dei grandi numeri, oggi sembra ritornata l’era dei guizzi e delle volate, delle superiorità numeriche ricavate dall’audace fantasia di giocatori aventi un ruolo ben preciso nell’ordine tattico: apportare una felice anarchia alle manovre offensive e far da apriscatole di fronte al chiuso degli sbarramenti tattici.
Nell’ultima vulgata tattica antecedente le rigide specializzazioni post-sacchiane, a questo compito erano preposti i numeri dieci. Da Baggio a Zola, da Mancini a Totti, il loro ruolo era a metà tra quello della mezzala di centrocampo e la seconda punta in grado di svariare. Quando Ancelotti, allora a Parma, diede il via libera alla cessione al Chelsea di Zola, in virtù di esigenze tattiche che imponevano una scelta di linea ai giocatori – o seconda punta o interno di centrocampo – un mondo sembrò finire (per la cronaca, Ancelotti in seguito ammise che sarebbe stato possibile trovare soluzioni diverse).
Prima dei numeri dieci, il ruolo “tra le linee”, come si dice oggi, era toccato ai numeri sette. Bruno Conti, il migliore. Ma anche Donadoni, Moriero e altri cavalli pazzi amanti della giocata, motori primi del contropiede, capaci di trattenere il gioco e l’attenzione degli spettatori tra il tacco e la punta del proprio scarpino, per poi scartare lateralmente, fintando a destra solo per poi rifintare a sinistra, scomporre gli equilibri bioenergetici dei terzini, concludere con cross perfettamente liftati in capo al mondo aereo delle punte o nelle intercapedini d’area piccola, proprio lì dove i portieri frastornati dalla caduta delle mura difensive perdevano l’attimo per chiudere sugli accorrenti attaccanti.
Compiuto il gesto tecnico, solitamente l’ala tornava nella propria zona laterale di campo, meglio se all’ombra (come piaceva a Daniel Bertoni, argentino di Fiorentina e Napoli che fu campione del mondo nel ’78), disinteressandosi quasi del tutto delle vicende difensive.
Del resto, non dev’essere un caso se il ruolo dell’ala abbia avuto ottime specializzazioni proprio in Olanda, dove si sono evoluti gli stratagemmi marziali della zona: dagli “antichi” Wilkes e Moulijn ad Overmars e Vanenburg, fino a Robben, i grimaldelli della manovra viaggiavano sulle fasce.
Certo, l’ala di oggi non se ne sta restio sul limitar del campo, ma viaggia in linea con la punta centrale e anche oltre, vista l’affermazione dei “falsi nove” come novelli registi della manovra offensiva, prima ancora che finalizzatori.
E in questa posizione, stanno fornendo un apporto nuovo di fantasia che, oltre a riavvicinare gli spettatori alla gioia dello spettacolo, consente alle proprie squadre di andare a trovare ficcanti soluzioni offensive (in questo, soppiantando sulla scacchiera i numeri dieci o le seconde punte).
Fuori i nomi dunque. Il primo è l’uomo del giorno: l’ivoriano Gervinho, mattatore della Roma di Garcia, immarcabile quando si sospinge alla rincorsa di un pallone gettato avanti, costringendo i difensori a rincorrerlo, senza poi disdegnare l’assist e il gol. Confusionario e abile al tempo stesso, capace di avvitarsi alla ricerca di un colpo di tacco a mezzo metro dalla porta o di centrare un palo a porta spalancata davanti, ma anche di dribblare quattro uomini in area o di segnare il gol decisivo alla Juve, con un tacco volante. Roma, sempre alla ricerca di personaggi eroici, gli ha ormai spalancato le braccia, riconoscendogli lo stesso affetto caciarone che in fondo caratterizza anche lo stile dell’ivoriano (a questo proposito, per chi volesse cercarsela, spopola su internet il remake di un brano vendittiano “Gervinho, Gervinho figlio dell’amore / parevi ‘na pippa / invece sei un campione”). Di lui, Totti ha detto “Se facesse pure gol, sarebbe Cristiano Ronaldo”.
Sempre nella Roma, ad intermittenza, ma pur sempre con cinque gol, come Gervinho, si è intravista la stellina di Adem Liajic, un altro che fa dell’arte di saltar l’uomo il proprio punto di forza.
Già dall’anno scorso invece, a Firenze porta enfasi e divertimento il dribbling dalle movenze sinuose e avvolgenti di Cuadrado. Colombiano allegro, semina vento e raccoglie avversari sul suo percorso, ritmato da scatti nel breve e affondi micidiali. Punto di forza della Fiorentina di Montella, potrebbe essere “the next big thing” del calciomercato mondiale. Certamente, aver trovato un allenatore che, per esperienza propria, crede nella libertà creativa dei dribblatori, lo ha agevolato a sviluppare le innate tendenze. Un accenno, sempre nella Fiorentina, lo merita anche Joaquin, uno che, a trent’anni passati, quando punta l’uomo nel breve dimostra ancora al mondo intero con quale tecnica si salta un uomo in verticale.
L’ultimo calciatore che vogliamo menzionare è un ex di entrambe le squadre nominate finora: Alessio Cerci, che sulla sponda granata di Torino, sta vivendo una stagione di soddisfazioni, dando finalmente l’idea di aver disciplinato un talento troppo a lungo tenuto grezzo e in balia degli umori. Oggi Cerci viaggia tra l’attacco e la fascia, segna molto, calcia benissimo e stacca i marcatori sul primo scatto, quasi sempre imprendibile. Tanto da farci venire un dubbio: e se fosse proprio lui, il giocatore “al passo coi tempi” necessario alla Nazionale di Prandelli? Quando si parla di Italia, troppo spesso ci si sofferma intorno ai nomi degli attaccanti puri, sottovalutando l’importanza di avere in squadra un uomo in grado di cambiare passo sulla fascia, sparigliando i meccanismi avversari con un dribbling o uno scatto in profondità. La Nazionale di Prandelli (per la verità in questo un po’ simile agli ultimi Milan ed Inter) ha spesso mostrato limiti di prevedibilità ed eccesso di terzini avanzati. E se avesse avuto invece ragione Battisti, quando cantava “senza ali, tu lo sai, non si vola”?