Uomo indagato, mezzo spacciato. E questa sembra una sottostima per l’altra metà, peraltro.
Prendiamo questo articolo del Corriere della Sera, e nello specifico guardiamo il box sulla destra: nel momento in cui scrivo, risulta che si dichiara indignato il 54% delle persone che hanno voluto dire la propria su quella pagina. Più di uno su due. Ma indignato di cosa, e perché? Questo, il Corriere non lo dice.
Chiarisco subito: non me la prendo certo con la testata di via Solferino, anzi. Però penso che assecondare gli istinti più bassi dei lettori sia uno dei peggiori errori che si possano fare, nell’età dell’informazione. Lo dico in parole ancora più chiare: aizzare reazioni, di solito scomposte, è da incoscienti. Ancor di più in un momento di crisi (economica e di valori). E poi: ma davvero un “sondaggio” del genere aggiunge qualcosa alla notizia?
Detto questo: la prima interpretazione, e probabilmente è quella giusta, dice che i lettori del Corriere si sentono indignati dai comportamenti illeciti di chi dalla vita ha già avuto tantissimo. E, per buona parte, è anche un giudizio che viene naturale, è comprensibile. In un certo senso, è il lavacro migliore per la nostra coscienza: il torto altrui è rassicurante (altrimenti non si spiega il successo dei programmi di cronaca nera).
Ma (uscendo per un attimo dalle notizie sportive: ci torneremo tra poco) come interpretare quel 50% di soddisfazione per le notizie che vengono da Lampedusa? Si è soddisfatti per il trattamento dato ai migranti, o per le reazioni amministrative e istituzionali?
Come spesso mi accade, parto dallo sport per affrontare tematiche più generali, sociali. E il dubbio che dovrebbe assalirci è ben rispecchiato da una celebre frase di papa Francesco: «Chi sono, io, per giudicare?». È un modo per dire che spesso e volentieri ci lasciamo guidare verso pensieri preimpostati, che dànno spazio a soluzioni comode e immediate, piuttosto che pensare a reazioni non isteriche. Capisco chi ha un interesse diretto (la madre cui hanno ucciso la figlia), non tutto ciò che vi gira intorno.
Prendiamo quindi il caso odierno, e facciamo i nomi: Gattuso e Brocchi indagati nell’ambito di un’inchiesta sul (nuovo) CalcioScommesse. Vi aiuto: G&B indagati. Colpevoli? No. Posso indignarmi se vengo a sapere che ci sono accertamenti? Al massimo, penso io, posso preoccuparmi. Posso essere interessato a sapere come va a finire; ma indignarsi significa sapere già come è andata. Posso indignarmi di un’ipotesi? Posso indignarmi della risposta a un’ipotesi (quando la replica sia sbagliata, inopportuna, contraddittoria); ma non di più. E, soprattutto, non posso indignarmi e sentirmi un bravo cittadino soltanto additando gli altri: non basta, non può bastare.
Lo stesso varrebbe per il caso Acerbi, con il ragazzo che in quarantott’ore è passato dall’essere un dopato a una (nuova) diagnosi infausta. Pensiamoci bene: chi ha il coraggio di chiedere scusa, dopo aver gettato il fango? A maggior ragione nel mondo della Rete, che spesso e volentieri garantisce anonimato e impunità.
(Lo dico a scanso di equivoci: non ho niente contro l’anonimato della Rete, anzi ne sono un suo sostenitore. Ma sono anche un sostenitore della responsabilità personale, e del dovere di rimanere persone civili, governate dal cervello e non dalla pancia. Prima della politica, viene la pedagogia; prima della discussione, deve avvenire una comprensione. Altrimenti, come umani, saremmo solo un coacervo di reazioni isteriche.)
Rimango convinto che certe persone, in certe posizioni di potere, debbano farsi da parte quando investite anche solo dall’ombra di un illecito. Ma questo non significa che siano colpevoli: vuol dire piuttosto che comprendono come una possibile macchia alla loro persona sia un problema per il ruolo istituzionale, e allora meglio fare un passo indietro. Se poi la macchia non c’è, una stretta di mano e si riprende la carriera. Dovrebbe valere per i ministri e i politici in generale, per esempio. O per le istituzioni sportive, da Blatter in giù (Carraro forse se lo ricorda, diciamo).
Gattuso e Brocchi indagati. Bene, ora lo sappiamo: e allora? E allora aspettiamo di vedere come andrà a finire: è dovere della stampa quello di mantenere la luce puntata su ciò che è importante; e sarebbe suo dovere non cercare il colpo a effetto sulla pelle altrui. È già dagli anni Novanta che assistiamo a un teatrino in cui ricevere un avviso di garanzia equivale a essere già condannati. E, se di giustizia si tratta, è giustizia sommaria.